• Home

Il Paolone del lunedì

Divagazioni periodiche prive di costrutto

Non credo abbia realmente senso trasporre un blog su carta stampata. Davvero, non so perché lo faccio. Potrei però azzardare delle ipotesi. Forse il mio feticismo per i libri mi impedisce di privarmi del gusto di stampare e rilegare tutta questa roba, dopo aver fatto la fatica di scriverla. Forse la mia malcelata condizione di bisnonno dei nativi digitali mi priva della certezza della durata degli archivi informatici remoti, gettandomi nel panico che il clou si dissolva in una nuvola. O forse avevo bisogno di qualcosa da regalare per natale.

Fatto sta che ho deciso di farlo: ho copiato e incollato tutto il contenuto di un anno di Paolone del lunedì, l’ho impaginato, corretto, editato, limato. Per poi accorgermi che non poteva funzionare. Questi testi nascono per stare sul web, per essere illustrati, commentati e, soprattutto, cliccabili.

Ma ormai ho quasi finito. Vuoi mettere, vengono più di centotrenta pagine! Ma quando mi ricapita di scrivere così tanto senza accorgermene? E poi chi si fida dei server di Blogspot? E se poi mi perdono tutto? E poi, se rinuncio, cosa regalo a tutti per Natale?

Quindi, eccola qua. La versione cartacea, immobile, non-cliccabile, alfanumerica, non illustrata, perenne del Paolone. Tutto sommato non mi sembra male.

Non sono sicuro di sapere chi siete, ma sarei felice di condividere con voi questo piccolo esperimento editoriale. Se mi mandate il vostro indirizzo terreno a ilpaolonedellunedi@gmail.com, sarò felice di mandarvene una copia (come si dice in questi casi, fino a esaurimento scorte).

A questo punto non mi resta altro da fare che augurarvi un felice Natale e darvi appuntamento all'anno prossimo.

Come ci racconta Nick Hornby, ogni anno, Will Freeman attende con sofferenza il momento in cui sentirà di nuovo, nella filodiffusione di qualche grande magazzino, "La super-slitta di Babbo Natale", hit del defunto padre che, con le royalties, gli permette di vivere da nullafacente di lusso. In effetti, il clima natalizio piomba ogni anno sulle nostre vite con dirompente puntualità, proiettandoci in un turbinio di consumismo e senso di colpa, dolcetti e sdolcinatezze, babbi natale e renne-dal-naso-rosso, pacchetti e lucette. Questo clima è anche, credo per tutti, tempo di nostalgie. Si indugia, in particolare, sui ricordi dell'infanzia. Non so cosa comprenda, per voi, la definizione di clima natalizio; per me comprende, con ruolo quantomeno di co-protagonista, Frankenstein Junior.

Perché, quando ero piccolo, e i canali televisivi erano ancora pochi, analogici e terrestri, la programmazione natalizia conteneva alcune costanti che diventavano, per noi bambini, dei riti. Tra queste, in una sera nei giorni tra natale e capodanno, la visione dell'indimenticabile film di Mel Brooks.

C'è una parte del film che credo di aver visto, citato e sentito citare centinaia di volte. Frederick (un ispiratissimo Gene Wilder) è arrivato in Transilvania, siede insieme alla bella Inga (Teri Garr) nel retro del carro condotto da Igor (l'inarrivabile Marty Feldman). Si sente un ululato, ne segue l'incredibile dialogo:
"  Inga: Lupu ulula.
   Freddy: Lupo ululà?
   Igor: Là!
   Freddy: Cosa?
   Igor: Lupu ululà e castellu ululì!
   Freddy: Ma come diavolo parli?
   Igor: E' lei che ha cominciato.
   Freddy: No, non è vero.
   Igor: Non insisto, è lei il padrone. Beh, ecculu là. Casa!"

Si tratta della straordinaria traduzione di un testo in inglese che ogni uomo ragionevole avrebbe semplicemente considerato intraducibile:
"  Inga: Werewolf.
   Freddy: Werewolf?
   Igor: There.
   Freddy: What?
   Igor: There wolf. There castle.
   Freddy: Why are you talking that way?
   Igor: I thought you wanted to.
   Freddy: No, I don't want to.
   Igor: Suit yourself, I'm easy. Well, there it is. Home."

In effetti, ne sono certo, tutti voi conoscete benissimo questo dialogo. Ma credo che nessuno di voi (addetti ai lavori e feticisti cinematografici vari esclusi) sappia chi sono Mario Maldesi e Roberto De Leonardis. Beh, sono gli autori di cotanta meraviglia. Ogni volta che citiamo quel passaggio, citiamo, inconsapevolmente, loro. Sono loro che, prendendosi grande libertà nella traduzione e sfruttando a fondo l'arte di doppiatori del calibro di Oreste Lionello, Gianni Bonagura e Livia Giampaolo, hanno contribuito al grandissimo successo nel nostro Paese di questo film (peraltro già splendido di suo).

 

In piazza Castello 27, a Milano, in un severo edificio ottocentesco, sulla destra, al piano rialzato, c'è un posto davvero speciale. È lo studio (oggi museo, almeno fin che ce la faranno a tirare avanti in un momento economicamente difficile per tutti) di Achille Castiglioni. E, nello studio di Achille Castiglioni, c'è una vetrinetta piena di oggetti comuni. Questi oggetti, di ignoto autore, segnano la nostra vita di tutti i giorni ed erano, per Castiglioni, fonte di continua ispirazione.

Castiglioni, che ha disegnato alcuni dei pezzi più famosi del design industriale di tutti i tempi, esposti nei musei di tutto il mondo e nelle case di intendinditori e VIP di vario genere, amava ripetere che l'oggetto di cui andava più fiero ere l'interruttore disegnato per VLM nel 1968. Migliaia di persone ogni giorni utilizzano questo oggetto, dal disegno rettilineo ma delicato e dal click sonoro e rotondo, davvero inconfondibile. Un oggetto da pochi euro che si usa (e si apprezza) ignorandone l'autore. Con questo progetto Castiglioni riteneva forse di essersi meritato un posto nella su stessa vetrinetta.

 

Quanti Mario Maldesi e Achille Castiglioni hanno riempito la nostra vita di cose meravigliose, semplicemente facendo bene il loro lavoro? Quando ci penso, è una cosa che quasi quasi mi commuove. Sarà il consumismo esasperato del capitalismo avanzato, sarà l'immaterialità dell'era informazionale, ma a volte ho la sensazione che oggi si tenda a considerare tutto effimero, a dimenticare quanto diffusamente e quanto a lungo qualcosa possa partecipare alla vita di tutti noi. E, forse conseguentemente, si tenda a fare le cose di fretta e male. Non è davvero un peccato?

 

Noi architetti abbiamo la superbia di affermare che il nostro lavoro richiede particolare responsabilità, perché i suo prodotti si impongono alla gente, che è costretta a vederli e, magari, a utilizzarli, senza averli scelti. Ma noi architetti raramente siamo disposti ad accettare la fatica e la serietà che questa responsabilità ci imporrebbe.

È difficile rendere per iscritto la grandezza di Natalino Balasso. È difficile far comprendere l'ilarità dei suoi sketch senza poter riprodurre quella vocina inconfondibile che lui attribuiva all'omonimo attore di film di nicchia (insomma, piuttosto porno). Ma dietro a quel personaggio c'era (oltre a molti malintenzionati, come farebbe notare Balasso) una grande intuizione. Quasi lyotardiana. Dopo la fine delle grandi narrazioni, nulla è più protagonista. Il mondo è diventata una grande commedia corale. Tutto ha cittadinanza, è solo questione di trovare la nicchia giusta.

Pensate alle mode: hanno un grande potere su di noi. Arrivano a farci andare in giro vestiti come dei cretini. Ci porteranno, anni dopo, a staggare le foto di gioventù che inopportuni amici caricano su Facebook, ricordandoci cose (e mise) che avremmo preferito dimenticare. L'unica giustificazione, almeno prima dell'Era della nicchia, era la sincronia, l'essere uguali a molti altri.

Oggi non è più così.

Non sono così ingenuo da pensare che negli anni Settanta andassero davvero in giro tutti con la camicia aderente e i pantaloni a zampa (o forse si?). Così come molti, ai miei ingrati tempi, seppero resistere alle felpe Best Company e alle calze Burlington. Però esistevano dei fenomeni di massa che interessavano le grandi maggioranze e che segnavano un'epoca.

Nell'autunno del 1984 la canzone più ascoltata era I Just Called to Say I Love You di Stevie Wonder, la ascoltavano tutti. E quando dico tutti, intendo dire tutti. Quest'autunno, secondo Billbord, la canzone più ascoltata negli U.S.A. è stata Moves Like Jagger. Prego? Le cose sono cambiate parecchiotto, come direbbe Balasso. Di questo passo ci si potrebbe illudere di essere tutti diversi. Forse, addirittura, di essere più liberi.

Tornando alla moda: Ari Versluis e Ellie Uyttenbroek, da tredici anni, ritraggono la gente per la strada in pose ben definite e poi la catalogano per tipologie. Il progetto si chiama Exactitudes ed è davvero divertente.

Oltre all'enorme massa di foto, sempre molto belle, la cosa più interessante sono le logiche con cui i due artisti definiscono le categorie. Alcuni accostamenti sono abbastanza ovvi, altri individuano divise in qualche modo formalizzate, ma il ricorrere di certi elementi è sorprendente. Perché le signore caritatevoli olandesi hanno tutte il gilet di piumino e i loro probabili mariti il gilet da pesca kaki? Perché tutti i sobri Casual Queers hanno la maglietta girocollo bianca sotto alla camicia?

Ancora più impressionante è quando la categoria si basa su qualcosa di più immateriale: un colore dominante, un materiale ricorrente, una posa, un'espressione. In fondo, come evoca il titolo stesso del lavoro, un'attitudine. Improvvisamente ci si ritrova a cercare la propria scheda. Anche se Ari e Ellie non ci hanno degnato della loro attenzione, non è difficile accorgersi per strada di quanta gente sia uguale a noi: basta parcheggiare temporaneamente altrove il nostro ego e guardare le cose con oggettività.

Esistono siti che, su queste somiglianze, hanno costruito la loro fortuna. Questi sono, per esempio, i miei vicini musicali su LastFM. Che poi ci sta anche di avere quasi gli stessi gusti di un ventinovenne olandese o un trentenne ispano-svedese, ma con una croata di diciannove anni, cosa dovrei centrare?! D'altronde, secondo il fenomenale indicatore SessoEtà, io sono un ascoltatore ventisettenne abbastanza poco maschile... Poi ci sono i miei vicini di letture (su Anobii) e sono ancora in attesa di qualcosa del genere per cinema, cibo e tutte le altre passioni possibili.

Insomma, per originali che si possa pensare di essere, la fuori, seppur in mezzo a un gran casino, c'è pieno di gente che veste come noi, che ascolta la nostra stessa musica, che legge i nostri stessi libri, che ama le stesse cose. Forse, qualcuno di loro, la pensa anche come noi, e non sarebbe male.

 

Non l'ho ancora visto, arriverà a Milano ad Aprile, ma I rusteghi - I nemici della civiltà, ovvero Goldoni adattato da Gabriele Vacis e Antonia Spaliviero, regia di Gabriele Vacis con Eugenio Allegri, Mirko Artuso, Jurij Ferrini e il nostro Natalino Balasso io, non me lo perderei. Questa volta, almeno, per divertirci NON alle sue spalle.

Non c'è niente da dire, ho scelto il momento sbagliato per iniziare questo blog.

Non so se avete presente Lloyd Bridges che, nei panni di Steve McCroskey, guarda in camera con sguardo allucinato e dice: "ho scelto la settimana sbagliata per smettere di..." (completare la frase con "fumare", "bere", "assumere tranquillanti", "sniffare colla"). Sto parlando, ovviamente, di "Airplane!" (L'aereo più pazzo del mondo, per i maldestri titolisti italiani), film straordinario e coltissimo, inspiegabilmente ignorato dalla critica più raffinata.

Quando ho iniziato a scrivere questo blog, mi sono pubblicamente ripromesso di non trattare mai argomenti seri, tantomeno di parlare di politica. Temo di aver più volte maldestramente tradito questo proposito, e temo di accingermi a farlo nuovamente.

Il fatto è che, come Steve McCroskey, ho scelto il momento sbagliato per smettere di occuparmi di queste cose. Ancora una volta, non posso passare oltre, questo lunedì, senza dire qualcosa su quello che è successo ieri sera, su quello che sta succedendo in questi giorni. In effetti dubito che vi interessi la mia opinione in merito, ma sento comunque l'impellente necessità di esprimerla.

Come molti, ieri sera ho guardato la conferenza stampa in cui il governo Monti presentava il decreto salva Italia. In realtà ne ho perso un pezzo abbastanza lungo, perché il TiggiUno, dopo averne trasmesso una prima parte, ha pensato bene di tornare alle sue amenità di cronaca nera. Io mi trovavo in un paesino della bergamasca, quindi: niente internet (dove in parecchi trasmettevano in streaming), niente La7, niente radio, ma per fortuna, dopo un po' di scartabellare, abbiamo trovato Rainews.

Altri, più competenti di me, ragioneranno sui contenuti quantitativi e qualitativi del provvedimento, e ci spiegheranno quanto e come ci farà male. Io mi fermerò alla superficie delle cose; alla forma che, alle volte, è sostanza.

Non credo che, in questo caso, sia una questione di parti politiche: non sono convinto che, in un mondo normale, io e Monti saremmo dalla stessa parte. La sensazione è di uno scontro di civiltà, altro che mamma li turchi. Quei signori alla televisione, ieri sera, erano davvero strani. Decisi, competenti, gentili, preparati. Ironici, ma educati. Emozionati e seriamente preoccupati dalla portata delle loro decisioni. Non trovate ci sia una distanza siderale da ciò a cui siamo abituati? Perché non possiamo pretendere questo da tutti i nostri politici?

A parte il TiggiUno, che ha fatto la figura barbina di cui sopra, anche gli altri mezzi di comunicazione si sono dimostrati poco all'altezza. Perfino i più prestigiosi quotidiani e i più moderni e ambiziosi giornali on-line hanno passato il pomeriggio a lambiccarsi su ipotesi risultate sbagliate, con i commentatori che si fidavano troppo delle indiscrezioni e troppo poco del buon senso del nostro nuovo governo (cit., e poi non dite che non ha senso dell'umorismo). Se, come ogni tanto mi sorprendo a credere, stiamo faticosamente entrando in una nuova fase della nostra decrepita società occidentale, il sistema dell'informazione è destinato a cambiamenti più radicali di quanto noi sia possibile immaginare, cercando di non confondere il real-time con il pettegolezzo, il duepuntozero con l'approssimazione.

Va poi di moda lamentarsi per l'eccessivo guadagno della nostra classe politica; anche questo non mi convince. Diciamo che ora abbiamo una Panda e la paghiamo come una Ferrari, e non va bene. Premesso questo, io preferirei avere una Ferrari e pagarla il giusto, piuttosto che avere una Panda, per economica che sia... Voglio poter pretendere, da chi mi rappresenta, la qualità che ho visto ieri alla tivù, e voglio poter pretendere, almeno da qualcuno, che la pensi in maniera ragionevolmente simile alla mia. Tra qualche mese, quando dovremo farlo, vorrei qualcuno così da votare; sapete dove trovarlo?

 

Una volta si diceva: compreresti un'auto usata da quest'uomo? Io, da Monti, la comprerei anche, ma temo che non mi rimarranno i soldi per farlo.

C'è una ragazza sdraiata sul lenzuolo bianco, alla mattina. È incredibilmente grassa, ma potrebbe essere carina; è grassa di una grassezza informe e innaturale. Si alza e parla e canticchia, francamente pare pazza. Eppure si muove con una certa grazia.

Altrove c'è un'altra ragazza, che da informazioni con voce che imita un computer che imita una ragazza che da informazioni. Dice cose strane, a tratti incomprensibili, a tratti vere. Risponde, parrebbe, alle sollecitazioni.

Poi ci sono dei quadri che incorniciano il mondo e le apparizioni fugaci di una terza ragazza. La gente si avvicina perplessa.

Nel cielo azzurro, di una limpidezza chimica e novembrina, saetta immobile un cordone fatto di stracci bianchi.

Un signore vende cinghie da camion, cingoli per sciare sull'erba e suppellettili cingalesi. Si trovano sui banchetti tazze e tazzine, libri e libretti, spaghi e spaghetti. Non capisco se sia più improbabile pensare che qualcuno possa vendere delle cose del genere, o che qualcuno possa comprarle.

 

Un registratore appollaiato su un trespolo di tubi di cartone racconta storie. Altrettanto fanno piatti e bicchieri.

Intanto la ragazza grassa è salita sopra a una specie di tavolino (di tubi di cartone). Sembrerebbe inscenare uno spogliarello, ma mi pare improbabile. Eppure. Ogni volta che si toglie un vestito diventa qualcun altro. È donna, è Madonna, è ballerino o forse torero. Deve costare molta fatica essere tante persone, che la ragazza si smagrisce a vista d'occhio. Attenzione! Quasi cadeva. E intanto intorno alla ragazza che da informazioni e al suo banchetto (di tubi di cartone) si è assiepato un piccolo gruppetto di curiosi che chiedono, contestano, dibattono, ridono. E intanto le cornici, appese dondolanti a un baldacchino semovente (di tubi di cartone) raccolgono sequenze di volti, di paesaggi, nature morte di oggetti che forse, entro sera, saranno di nuovo vivi.

Si possono comprare scarpe, computer, mutande, pentole, magliette, biciclette, una macchina per fare la raclette. Una giovane indignata vende una statuetta di un corpulento omaccione intento a defecare, con tanto di sonoro che ne evidenzia l'estro di scoreggione. Un signora guarda scuotendo la testa, forse meno giovane ma, si direbbe, non meno indignata.

Dove c'era la ragazza delle cornici ora ci sono solo passanti distratti, mentre lei è un poco più in la, in cerca di nuovi volti, nuovi paesaggi, nuovi oggetti. Le informazioni erogate dall'informatrice zelante sono sempre più complicate, ingarbugliate, strampalate. La ragazza, riposata, si è di nuovo ingrassata.

Alla fine tutte quante se ne vanno, portandosi via gli strani trespoli con cui si erano presentate. Rimane il mercato, ancora per qualche ora, e gli stracci ad aspettare la sera.

 

Alcune di queste cose succedono tutte le domeniche mattina, al mercato delle pulci di piazza Alfieri, alla Bovisa. Alcune di queste cose sono successe questa domenica mattina, che c'era anche il Mercato Invisibile, in piazza Alfieri, alla Bovisa.

Leggo con una certa costanza "Domenica", l'inserto domenicale del Sole 24 Ore dedicato alla cultura. Complessivamente è un oggetto che mi piace molto. La carta rosa salmone, i meravigliosi font disegnati appositamente da Molotro, le illusarzioni di Guido Scarabottolo. Non nego, all'inizio, forse, che fosse anche una posa, un modo per darsi un tono. Ma ormai è autentica passione.

Non mi sono mai considerato una persona particolarmente colta. So delle cose, forse molte, generalmente inutili, ma della persona colta mi mancano le basi. Sarà stata la disastrata scuola italiana, sarà stata la mia proverbiale pigrizia, sarà l'incostanza che ho imparato a spacciare per eclettismo, fatto sta che il mio sapere presenta la caretteristica morfologia detta a "Emmentaler": una geografia fatta di buchi.

Forse per una naturale tendenza a riempire, o per un malinteso ideale di intellettuale borghese (ah, i danni della sindrome dell'impiegatino asburgico), vivo con la pulsione eternamente insoddisfatta di aumentare continuamente le informazioni in mio possesso.

Sono sempre stato così e, quando Umberto Eco, nei primi anni Novanta, iniziava a spiegarci le meraviglie dell'ipertesto, avevo subito fiutato il pericolo in arrivo. Pochi anni dopo, è entrata prepotentemente nelle nostre vite Internet, dando un valore quantitativo prima inimmaginabile al concetto di hyperlink (brrr, che brivido: ho appena messo un hyperlink sull'hyperlink...).

Da allora sono passati parecchi anni, la mia stazza somiglia vieppiù a quella di Eco, anche se io mi sono fatto crescere la barba e Eco se l'è tagliata, e internet è diventata una pratica quotidiana. La mente ha ormai acquisito il concetto di hyperlink e spesso fisso la pagina del Domenicale, desolatamente inerte, cercando di cliccare un concetto poco chiaro, un tema da approfondire, un personaggio a me ignoto.

Lo stadio finale di questa grave patologia è giunto alla comparsa nella mia vita del famigerato iPhone.

Con uno smartphone in mano il mondo si è riempito di hyperlink. In pochi istanti puoi scoprire chi era Uwe Timm, recuperare il passo della Bibbia a cui fa riferimento Ravasi, ascoltare le canzoni recensite da Gommalacca, salvare su Anobii il libro da comprare. Altrettanto si può fare con tutto ciò che ci circonda, trasformando il nostro contesto in un ipertesto.

Pericoloso, no?

Il problema è che, differentemente dai nostri modernissimi dispositivi e dalla splendida Naima di Nirvana, noi non abbiamo uno slot dove inserire un'espansione di memoria, e il nostro cervello continua a riempirsi di informazioni, richiando una improvvisa e rovinosa saturazione. (Per noi teen-ager degli anni Ottanta, questo problema è acuito dalla parte importante della nostra memoria occupata da informazioni totalmente prive di utilità, quali i dati anagrafici della famiglia Dukes della contea di Hazzard, i tormentoni dei comici del Drive-In, i testi delle canzoni dei Duran Duran e il vero nome di Ron.)

Il timore è che, a un certo punto, il nostro cervello, messo alle strette, decida di fare spazio cancellando informazioni a caso. Pensate di svegliarvi un giorno ricordando l'indirizzo della Casa di Sergio Endrigo (via dei matti numero zero) ma non quello di casa vostra, ricordando la data del terribile terremoto in Armenia (7 dicembre 1988) ma non la data di nascita di vostro figlio, ricordando il nome di tutti e setti i nani (e anche dell'ottavo, e del nono...) ma non il nome del vostro collega che vi saluta sempre con grande cortesia.

Che disastro.

Forse dovremmo correre ai ripari, iniziare a selezionare gli input, essere più prudenti, smettere di cliccare come ossessi.

Non so voi, ma io non ci riesco, è più forte di me. Vuoi mettere il brivido di passare la notte a ricostruire le vicende di una remota regione dell'est europeo, scenario del romanzo che staremmo leggendo (se non stessimo navigando)? Vuoi mettere la libidine (eccoli, i terribili anni ottanta, che riaffiorano garruli) di conoscere l'intera geneaologia dei Tudor, l'elenco delle amanti i Picasso, l'enunciato del Principio di indeterminazione di Heisenberg?

Continuiamo quindi a cliccare e approfondire, impavidi o incoscienti, accatastando informazioni come certi matti che girano per la città con un carrello dell'Esselunga pieno di carabattole di cui loro soli comprendono il valore. Forse solo così, come loro, saremo a nostro modo felici.

Il 27 marzo 1994, dopo aver votato, siamo partiti. Eravamo in cinque, al primo anno di architettura e amici di quelle amicizie acerbe e entusiasmanti tipiche delle nuove fasi della vita. A bordo di una gloriosa Y10 bianca, abbiamo mosso alla volta della Toscana. Cinque giorni suppostamente culturali, ma principalmente alcolici e mangerecci, a spasso per i colli della Val d'Orcia. Montalcino, Pienza, Bagno Vignoni, San Quirico d'Orcia; osterie, trattorie e ettolitri di Sangiovese in tutte le sue forme. Compravamo i quotidiani a mazzette e, durante gli spostamenti, la Lalla faceva la rassegna stampa. Chissà se eravamo coscienti di assistere a un passaggio epocale che avrebbe avviato un ciclo destinato a durare quasi vent'anni. Francamente, credo di no. Però ci siamo divertiti molto.

Negli anni a venire il paese era destinato a DriveInizzarsi. Tette, culi e barzellette diventarono il vocabolario della vita pubblica. La politica, che da giovanissimo avevo amato molto, si degradò a una robaccia da sottobosco di potere. Anche se in questi anni si sono succeduti governi di diverse parti politiche, il protagonista assoluto di questa stagione è stato, senza tema di smentita, il degrado della civiltà.

Io non so se sabato 12 novembre alle 21 e 43, quando Silvio Berlusconi si è dimesso, è davvero iniziata la fine di un'epoca. Se anche fosse, come spero, dobbiamo però rassegnarci al fatto che ci vorrà molto tempo e altrettanto lavoro per ricostrure tutto quello che in questi anni è stato distrutto.

Comunque, in questi ultimi 6.500 giorni ho fatto alcune cose.

Sono stato studente di architettura. Appassionato, svogliato, polemico, utopista, velleitario, pragmatico. A Milano, a Valladolid, a Sevilla e, di passaggio, anche a Bruxelles, a Malmö, a Samarcanda. Ho conosciuto un sacco di gente interessante, altri ne ho persi per strada; ho avuto alcune fidanzate. Mi sono perfino laureato. Ho fatto il bidello in una scuola materna e ho conseguito un Dottorato di Ricerca. Ho conosciuto un'austriaca e me la sono sposata. Ho fatto due figli (per quanto il mio apporto sia stato e sia assolutamente marginale). Ho cercato di lavorare divertendomi: ho fatto lavori con molte persone, quasi tutte speciali (le persone, non i lavori). Alla fine ho aperto, con due splendide socie, un pericolante studio di architettura. Ho progettato molte cose e ne ho costruite alcune. Ho avuto centinaia di studenti che spero si ricordino di me (io ricordo con affetto alcuni di loro). Ho continuato a credere nel dovere di sognare un mondo migliore e nella necessità di fare, almeno ogni tanto, qualcosa che ci sembra utile perché questo mondo sia un poco più vicino.

E, in tutta serenità, vorrei dire una cosa: mi dispiace, Cavaliere, ma, nonostante Lei, questi diciassette anni me li ricorderò come bellissimi.

Sono giorni davvero difficili; per il mondo, per il nostro paese, per le nostre città. L'economia mondiale, la politica internazionale, perfino la natura ci porgono il conto salato degli errori che abbiamo fatto. Io non sono certo la persona giusta per commentare tutto questo casino. Peraltro, anch'io, personalmente, avrei parecchie cose di cui lagnarmi. Come se non bastasse, stamattina diluvia e questo mi mette di pessimo umore. Ma non mi sembra il caso di aggiungere i miei piccoli guai alla collezione dei disastri del mondo.

Verso la fine di Manhattan, Isaac Davis (Woody Allen), sull'orlo di un improbabile suicidio, decide di ricapitolare, dettandole al registratore, le cose per cui vale la pena continuare a vivere. L'ho sempre trovata una buona idea, anche senza bisogno di toccare il fondo della depressione; tra me e me lo chiamo fare il "Woodyallen sul divano".

Ecco, questo mi sembra un ottimo momento per fare il Woodyallen sul divano. A costo di ripetermi, avendo fatto qualcosa di simile in un vecchio post, a costo di sembrare un po' melenso, a costo di andare fuori tema.

Per esempio, nella tragedia, che non può che renderci tristi, mi piace però vedere l'espressione esausta ma determinata dei ragazzi che sono accorsi a spalare il fango per le strade di Genova; mi piace ricordare la stessa espressione negli amici che avevo introno quando, diciassette anni fa, toccò a noi renderci utili, per le strade di Alessandria.

Poi, nonostante tutto e tutti, mi piace il mio lavoro. Mi piace pensare che, magari proprio adesso, qualcuno sta facendo l'amore in una camera da letto che ho progettato, o in una sala, in un bagno, in una cucina o, perché no, su una terrazza.

Mi piace scorgere, nella penombra dell'aula, lo sguardo assorto della studentessa in prima fila che guarda incantata la villa di Gio Ponti che sto spiegando, dimentica finalmente degli appunti che prendeva compulsivamente, degli esami, dei voti e dei crediti didattici. Mi piace pensare che anche lei amerà l'architettura.

Mi piace quando vorrei farmi i cavoli miei, ma devo portare a letto la Luisa e allora salgo di sopra, la aiuto nei piccoli riti serali e poi, un po' meccanicamente, mi metto a cantarle le canzoni della sera ("il cielo pieno di stelle" e "summertime", per la precisione, e "con i massaggi") e, dopo un po', mi accorgo che lei, sottovoce, le sta cantando insieme a me. Mi piace quando prendo in braccio il Michi e lui, mentre si guarda in giro curioso, mi infila la mano dietro, nel colletto della camicia.

Mi piace guardare di nascosto i miei genitori fare i nonni.

Mi piace guidare di notte sotto la pioggia leggera ma insistente, la famiglia, esausta, finalmente addormentata, un incongruo Paolo Nutini che schitarra alla radio e pensare al Paolone che scriverò arrivato a casa, conservando quello che era già pronto per la prossima volta.

Mi piacciono parecchie cose di (e con, e su, e per) mia moglie, ma francamente me le terrei per me.

 

Alla fine della scena, Woody Allen si alza e corre a fermare Tracy (una splendida Mariel Hemingway) in partenza per Londra. Ora, fuori piove e non saprei bene dove correre, ma l'esercizio del Woodyallen sul divano funziona , davvero, e dopo torni ad affrontare il mondo un poco rinfrancato.

 

Da leggersi, potendo, con, come colonna sonora, la Rhapsody in Blue di George Gershwin, magari nella splendida versione della Gewandhausorchester Leipzig diretta da Riccardo Chailly e con Stefano Bollani al pianoforte.

Ho già raccontato, in uno dei primi post di questo Blog, i valori che hanno caratterizzato la mia educazione e che conducono, più o meno, la mia vita adulta. Una menzione particolare potrebbe però meritare la traiettoria della mia educazione musicale, arrivando fino ai miei figli.

In casa mia, quando ero bambino, non si ascoltava tantissima musica. Un po' si, però, e infatti in sala c'era uno Stereo HiFi e una piccola pila di Long-plaing. Io ne amavo particolarmente quattro: un disco degli Inti Illimani, uno dei Beatles, uno di Joan Baez e uno di Nanni Svampa.

Inti-Illimani

Nel 1973, in quell'altro undici settembre forse troppo presto dimenticato, con un colpo di stato, il generale Augusto Pinochet (con qualche aiutino) sovverte il governo di Unità Popolare di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. Quel giorno gli Inti Illimani, un gruppo di musica popolare chilena, quella tutta flautini e frange di lana, si trovavano a Roma per una data della loro tournée italiana. Ci rimasero quindici anni, in attesa di poter rientrare nel loro paese, raccontando instancabilmente le sofferenze cui il loro popolo era sottoposto. In quello stesso anno uscì, in Italia, Viva Chile!, raccolta di canzoni appositamente registrate per il mercato italiano. Se volete ve le canto tutte e dodici, posso anche fare "na na na" nei pezzi strumentali. Ve le posso cantare a memoria, anche se non l'ho più ascoltato da allora. Questo dovrebbe darvi la misura di quante volte l'ho ascoltato. La mia preferita era la Cancion del poder popular, che io chiamavo "la canzone del presidente". Dai, posso cantarla? Vi faccio anche sclonk dove il disco era rigato.

Il disco dei Beatles era una strana raccolta, 20 golden hits, che comprendeva tutte le canzoni più famose dei quattro di Liverpool. Se ben ricordo, la mia preferita era Let it be, ultima traccia del lato B. Avevo anche identificato in quattro omini dei miei lego Paul, John, George e Ringo e li portavo in tournée per il soggiorno con un vagone del treno debitamente modificato.

Il disco di Joan Baez era la registrazione del suo concerto al Teatro Lirico di Milano del 1967, arricchita di una versione incisa - sempre dal vivo - a Vienna di "c'era un ragazzo che come me".

Il disco di Nanni Svampa, in fine, era il terzo volume di "Nanni Svampa Canta Brassens". In questa serie il cantante milanese ex-Gufo canta le canzoni di George Brassens, dopo averle tradotte in dialetto milanese. Molti anni dopo avrei riscoperto le meraviglie dell'anarchico cantore francese e l'avrei amato sia nella versione originale che nelle mille reinterpretazioni, tra gli altri, di Svampa, De André, Paco Ibañez e Javier Krahe. Di quel disco, la mia prefarita era la "La guerra del desdott", davvero non saprei dirvi perché.

E poi c'era una selezione varia di dischi tardo sessantottini e di canzonette, tra cui amavo in particolare uno di Joan Baez e uno della Vanoni. Insomma, nel complesso un'educazione musicale non particolarmente sofisticata, ma almeno divertente. Sicuramente la grande assente fu la musica classica.

Il mio primo acquisto indipendente furono due musicassette comprate, grazie a una delle generose "mance" della nonna Luisa, nell'estate del 1985 nel negozio di dischi del Porto di Chiavari. Si trattava della compilation Pole Position, che conteneva, in particolare, La Colegiala di Rodolfo Y Su Tipica, dimenticabilissimo ballabile pseudo-latino che allora amavo molto, e un più dignitoso Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen, inizio di una grande passione. Poi, per conto mio, ho scoperto il Blues, Paolo Conte, il Jazz e tante altre cose, inframmezzandole laicamente con la peggiore musica commerciale dell'epoca. Alla fine anche la musica classica. Oggi che sono un musicista prematuramente fallito, un appassionato di musica abbastanza eclettico, un collezionista compulsivo di CD e MP3 e, soprattutto, un padre, mi chiedo cosa rimarrà delle mie passioni musicali nella memoria dei miei figli.

Nel frattempo, a fare casino, ci pensa mia madre.

Sarebbe improprio dire che mia madre è una snob, non renderebbe giustizia al suo carattere aperto, curioso e tollerante. Nè sarebbe coerente con la probabile collocazione socioeconomica della nostra famiglia. Potremmo dire che provengo da una famiglia della piccola borghesia, forse più colta che non ricca, che ha sperimentato, come molte, una certa crescita nell'arco delle due ultime generazioni (quelle che mi precedono). Oggi, grazie alla crisi che si è abbattuta sul sistema economico globale e, con particolare accanimento, sul nostro paese, e grazie alle scellerate scelte lavorative che compio sistematicamente, mi sento sollevato dall'onere di proseguire questa fulgida traiettoria. Pazienza.

Mia madre non è particolarmente snob, dicevo, però, ogni tanto, si lascia andare a commenti sprezzanti nei confronti dei molti che lei considera dei parvenu: diciamo che secondo i suoi severi criteri solo una piccola frazione di persone meritano pienamente la condizione socioeconomica che hanno (o si vantano di avere). Allo stesso modo si diverte a inserire nelle nostre vite e, particolarmente, nell'educazione dei suoi nipoti, piccole pillole di sciccheria alle volte un po' sopra le righe.

Per esempio, qualche mese fa ha regalato ai miei figli il dividì della riduzione a disegni animati a cura di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini del Flauto Magico di Mozart.

Cioè, fammi capire: tu mi hai cresciuto a sciala-la-la e uacciu-uari e adesso pretendi che i miei figli ascoltino Mozart?! Ma ti pare?!

Ora, la cosa incredibile è che i miei figli adorano questo piccolo gioiello. Lo guardano incantati tutte le volte che possono, godendosi peraltro il previlegio di capire il libretto in tedesco di Emanuel Schikaneder. Mio figlio, alla sola idea di poterlo guardare, si mette a saltare come un canguro per tutta la casa (in generale ha preso alla lettera la questione dei "salti di gioia") gridando Papa-Ego, Papa-Ego, Papa-Ego (che poi sarebbe Papageno).

In effetti bisogna ammettere che si tratta di un piccolo capolavoro. Sicuramente il singspiel di Mozart, divertente, orecchiabile, gioioso e affascinante. Ma anche il lavoro che hanno fatto Luzzati e Gianini è incredibile. Artigianale e naive e, contemporaneamente, elegante e sofisticato; immediato ma raffinato, colorato e divertente.

Chissà se la Luisa e il Michi da grandi, ricordando, canticchierano "Pa-Pa-Pa-Pa"...

All'inizio della nostra carriera di architetti, abitavamo e lavoravamo nello stesso luogo: tre locali al piano terra in Bovisa con un passato da verduraio. Una sera uno dei miei primi (e più affezionati) clienti venne a trovarci per discutere alcuni dettagli del progetto che stavamo facendo per lui. Guardando assorto il vecchio televisore che capeggiava nella sala da pranzo / sala riunioni disse: ma è uguale al vecchio televisore di mia nonna! No, questo è il vecchio televisore di tua nonna. Diciamo che non sono mai stato all'avanguardia nelle tecnologie video.

Da allora sono passati parecchi anni, ora sono un professionista affermato (ah, ah, ah): guadagno probabilmente meno di allora, ma con molto più stile. Lo studio è ancora nei locali dell'ex verduraio della Bovisa, in parte ristrutturati. Noi, dopo due traslochi, abbiamo una splendida casetta in un quartiere modello dell'architettura moderna milanese.

Il televisore della nonna è sopravvissuto solo al primo San Martino: siamo dunque approdati alla nuova casa senza TV. In effetti avevamo anche ampiamente esaurito il budget per la ristrutturazione, e quindi pensammo di rinunciare sia all'acquisto di un nuovo televisore che al montaggio dell'antenna sul tetto. L'idea era che si trattasse di una rinuncia provvisoria, ma poi ci siamo abituati. Odio passare per snob tutte le volte che dico che non abbiamo la televisione, ma davvero stiamo bene così. Leggere la sera, per esempio, è sempre un piacere. Se rimane qualche neurone disponibile, anche fare quattro chiacchiere può essere un'alternativa interessante.

Ci siamo poi comprati un videoproiettore e un lettore di DVD (recentemente sostituito da un lettore Blu-Ray). Abbiamo perfino un sintoamplificatore Home Theater. Ci godiamo quindi, senza problemi, le serie televisive che ci fanno impazzire (Scrubs, Weeds, 30 Rock, ma anche Boris ci è piaciuto) e tanti bei film, che al cinema non ci andiamo più gran che. E alcune tonnellate di cartoni per i bimbi.

Capita, a volte, di avere una TV sottomano; in campagna, o al mare, o in vacanza. Il problema è che, una volta disabituati, alcune cose risultano intollerabili. La pubblicità, per esempio, che interrompe la narrazione e allunga le vicende a dismisura. Ma anche il tenore medio delle trasmissioni, che risulta abbastanza terrificante. Quindi niente pentimenti.

Siamo però tagliati fuori dalla quotidianità del palinsesto. Questo mi manca, soprattutto, dei tempi della televisione. Commentare la mattina con conoscenti più o meno occasionali i programmi della sera prima; ripercorrere gesti, battute e tormentoni. Condividere vocabolari e terminologie del telefilm preferito.

Ogni tanto guardiamo le trasmissioni televisive, se c'è qualcosa di interessante. Ormai il web streaming funziona in maniera egregia e la maggior parte delle cose vengono poi pubblicate sui siti. Questo risolve anche l'annoso problema degli orari improbabili delle poche cose passabili. Per esempio, in queste ultime settimane stiamo seguendo Sostiene Bollani, la splendida trasmissione dell'eclettico pianista milanes-fiorentino. Davvero una meraviglia.

Stefano si perde in narrazioni sconclusionate, a volte gigioneggia un po' troppo ma a uno che suona così si perdona tutto. La bravissima Caterina Guzzanti contrappunta con una giusta dose di lucida follia, Jesper Bodilsen e Morten Lund accompagnano con gusto ed eleganza. E poi: che ospiti! in queste prime puntate sono passati Irene Grandi, Gabriele Mirabassi, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, Peppe Servillo, Monica Demuru, Vinicio Capossela, Gianluca Petrella, Joe Barbieri, Elio, Daniele Silvestri, Paolo Fresu e Trilok Gurtu, Fabio Concato, Lella Costa, Enrico Rava e Bobo Rondelli. Mica male, no? Sembra di essere tornati ai tempi di "D.O.C.".

Ce lo guardiamo il lunedì sera, che a mezzanotte della domenica, orario ufficiale di programmazione, oltre al segnale televisivo e all'apparecchio, ci manca anche la voglia. Insomma: un'ottima soluzione.

Ma la mattina dopo, al bar, non ne puoi mica parlare. Non viene automatico, sei fuori sincronia. E questo vale anche per le altre trasmissioni decenti che alle volte guardiamo. Vediamo tutto con giorni (a volte mesi) di ritardo.

Per carità, non è grave, ma un po' mi manca quel senso un po' comunitario della chiacchiera della mattina dopo.

Ho frequentato le scuole superiori in uno dei mitici omnicomprensivi che punteggiano la periferia milanese. XIV Liceo Scientifico Statale "Gerolamo Cardano", per la precisione.

Che voi ci crediate o no, in cinque anni di liceo io non ho praticamente mai studiato. O quasi. Le due o tre volte che ho studiato me le ricordo: latino nell'estate tra la prima e la seconda, come scotto per aver rischiato di prenderlo a settembre. Matematica nell'estate tra la terza e la quarta, per averla effettivamente presa a settembre. Storia per la maturità (geografia astronomica, sinceramente, neanche aperta).

Molto si potrebbe dire di una scuola che mi considerava uno studente quasi sempre sufficiente e spesso discreto (almeno giudicando dai voti), senza pretendere in realtà nulla (o quasi) da me. Va da sé che, viste le premesse, in cinque anni non ho imparato sostanzialmente nulla. Quantomeno per quanto pertiene alle materie curriculari. Per il resto, una grande esperienza di vita.

Facevamo le cose che tutti fanno a quell'età, e come tutti eravamo convinti di essere i primi a farle. Siamo stati quel poco incendiari da poter essere oggi pompieri con il cuore in pace. C'erano i collettivi e le scampagnate, le feste in maschera e i concerti, la prima ragazza e molte altre prime cose che, data l'estrema eterogeneità del pubblico di questo modesto blog, mi terrò per me.

Tra le cose che ti facevano sentire speciale, c'era il fatto di possedere il "Live at Borgomanero". 25 settembre 1987, un gruppo di ragazzotti si spacciano per una band greca e cantano canzoni come No Gianni no, Unanime, Vivi Rocco, Urna, Silos (la mia preferita), Tenia, The peak of the mountains, John Holmes, Pork e Cindy, Bidet, Alfieri e, soprattutto, Cara ti amo. Non c'era altro, solo una musicassetta da novanta copia-della-copia-della-copia, i testi che passavano da una Smemoranda all'altra e qualche temerario che cercava di farne cover, scoprendo che gli apparenti cretini erano in verità musicisti assai dotati e che suonare i loro pezzi non era proprio una passeggiata.

Nel 1989 esce Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, e noi vecchi appassionati iniziamo a sentirci sospettosi. I nuovi fan appaiono in sostanza come indegni usurpatori. Non vi dico neanche quando nel 1996 gli Elii si presentano a Sanremo. Scandalo e ripulsa. Il problema è che la canzone era stupenda e che l'album (Eat the Phikis) è forse il migliore di sempre.

 

Insomma, in fondo è un fenomeno tipico. Scopri una cosa che trovi eccezionale e non ti capaciti di come sia possibile che agli altri non gliene freghi nulla. Ti crogioli nella tua nicchia fino a quando il successo non arriva. A quel punto ti trovi a combattere tra la gioia per i tuoi beniamini e l'orgoglio di essere arrivato primo da un lato e lo snobistico fastidio per i parvenu dall'altro. Un classico.

 

Io, per esempio sono arrivato al Mac abbastanza tardi. Una prima una prima incursione spericolata fu quando regalammo l'iMac appena uscito a mia madre (1999). Il design era eccezionale, ma l'estremismo Apple ancora da digerire (l'iMac era il primo PC con solo prese USB, trovala tu una stampante...) e il sistema operativo (Os 9.2) macchinoso e confuso non meno del corrispettivo Windows. Il primo Mac che ho usato realmente è stato però il Titanium PowerBook G4 che mio zio mi regalò, usato, nel 2002 a parziale pagamento della mia opera prima architettonica. Un oggetto incredibile. Il design è, a mio modesto avviso, ancora insuperato. Il sistema operativo Os X un capolavoro di equilibrio tra il fighettume dell'interfaccia e il core UNIX potentemente hacker.

Probabilmente molti vecchi utenti Mac guardavano noi neofiti dell'Os X come degli sguaiati invasori, ma noi ci sentivamo dei pionieri.

Poi arrivò l'iPod, iTunes, i processori Intel e alla fine l'iPhone e l'iPad, e così anche noi ex-newbie abbiamo potuto sentirci dei vecchi esperti.

Comunque, in questi ultimi dieci anni, grazie alla Apple ho lavorato con computer esageratamente più belli e ragionevolmente più efficaci di quanto non facessero "gli altri", ho ascoltato ore e ore di musica nelle cuffiette (anche se non completerò mai i 45 giorni consecutivi necessari ad ascoltare tutta la mia libreria), ho fatto un sacco di cose con il mio iPhone e sporadicamente sono anche riuscito a usarlo per telefonare.

 

Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht, ma in tempi di veline e di Tarantini, di escort e di furbetti, qualche buon esempio fa pure comodo.

 

Grazie Steve.

 

p.s.: Alcune settimane fa mi sono tolto una gloriosa soddisfazione: Supergiovane in persona è stato mio ospite in Facoltà. E poi ci sono quelli con le liste delle cose da fare prima dei quarant'anni... qui si va oltre il sogno più ardito!

L'aeroporto di Rodi potrebbe vantare un record notevole: il ritardo medio alla partenza degli aerei è di oltre venti minuti. Dico potrebbe perché, nonostante il valore assoluto possa apparire ragguardevole, gli permette di collocarsi solo al secondo posto di questa speciale classifica: l'aeroporto europeo con il ritardo medio maggiore è infatti Roma Fiumicino (dati 2009). Ora non vorrei soffermarmi sulle patrie disgrazie, ma preferirei raccontarvi alcune cose di Rodi.

Dovete sapere che Rodi è, da molti anni, la meta privilegiata dei charter in partenza dal Regno Unito. Torme di ragazzotti britannici approdano ogni settimana sull'isola greca e passano i seguenti sette giorni a bere birra. Al momento della partenza vanno (o vengono portati) in aeroporto, fanno il check-in e, nell'attesa dell'imbarco, si prendono l'ultima sbronza. Circa uno su quattro all'imbarco non ci arriva proprio. Ma, poiché sono arrivati in aeroporto e il check-in risulta fatto, il volo si trova costretto ad attenderli e quindi specifici addetti partono alla ricerca dei dispersi per trascinarli sull'aeromobile, mettendoci mediamente una mezzoretta.

Alcuni anni fa sono stato in vacanza per una settimana a Rodi. Si trattava delle seconda settimana della nostra luna di miele. Quando abbiamo prenotato il viaggio, sopraffatti dalla stanchezza del lavoro e dei preparativi dello sposalizio, avevamo deciso di concederci una vacanza di pieno relax e avevamo quindi prenotato due settimane in due diversi alberghi del dodecanneso. La prima settimana, a Kos, addirittura full-board (mai più fatto, per ora, niente del genere, ma mai dire mai). A Rodi l'idea era di reiniziare a mettere il naso fuori. In effetti l'isola è vasta e molto bella e la città di Rodi è splendida.

Il centro storico, la Città vecchia, patrimonio dell'umanità UNESCO dal 1988, è una straordinaria collezione di monumenti di molte epoche e culture: le mura, il Collachio, l'Ospedale dei Cavalieri, il palazzo dell'Armeria, la Via dei cavalieri, il Palazzo del Gran Maestro e la Moschea di Solimano. Il tutto tessuto in una trama urbana di straordinaria bellezza.

Il problema sono le maglie del Tottenham.

Già, perché gli inglesotti di cui sopra, quando non sono riversi da qualche parte o a cuocere sulla spiaggia, passeggiano per le vie del centro storico acquistando paccottiglia turistica inenarrabile. Principalmente maglie di squadre di calcio. Principalmente inglesi.

Entrance to the Kahal Shalom Synagogue

E allora, preda di un istinto di sopravvivenza che va ben oltre il normale snobismo nei confronti del turismo di massa, scappi dalle vie principali in cerca di qualche tesoro nascosto. E può capitarti di imbatterti nella sinagoga Kahal Shalom. Entri, attraverso un portone di legno chiaro con intagliate le stelle di Davide, in un patio dal sapore andaluso. Incontri un signore gentile che in un italiano perfetto ti illustra, spontaneamente, la storia del luogo. E poi potresti, come me, complimentarti con l'accogliente signore per il suo italiano, e sentirti rispondere che, da bambino, i colonialisti italiani lo hanno costretto a impararlo, che lui ne avrebbe anche fatto a meno.

 

Ci sono momenti nella vita in cui contemplo con malcelato stupore la mia ignoranza. Ne osservo incantato la vastità abbacinante. E poi, redivivo Clark Griswold davanti al Gran Canyon della mia inadeguatezza, fletto le gambe e scappo via.

 

L'italia di inizio secolo, durante la guerra con la Turchia, decise di occupare questa manciata di isole dell'Egeo. Per la precisione, il 26 aprile 1912 occupò Stampalia e poi, via via, le altre isole; Rodi fu occupata per ultima, il 16 maggio. Il Dodecanneso fece parte del Regno d'Italia da allora fino al 1943 (ufficialmente fu italiano fino al 1947). Sinceramente, ne avevo un'idea alquanto confusa.

Prima ancora che potessi riprendermi dall'imbarazzo, entra nella sinagoga una signora ancora più anziana (che, grazie ai prodigi di internet, ho ora scoperto essere Lucia Sulam Modiano). I due iniziano a parlarsi in una lingua che non riconosco. Ma che comprendo abbastanza bene. Dopo aver scartato l'ipotesi di una conseguenza pentecostale della mia epifania di poco prima, rinunciato a qualsiasi pudore, chiedo al gentile signore che strana lingua stia parlando. Spagnolo, mi risponde. Ecco perché capivo. Ma non mi sembra somigliare allo spagnolo che conosco io. No, mi dice, in effetti è lo spagnolo che le nostre famiglie parlavano a Toledo prima di esserne cacciate alla fine del Quattrocento.

Orpo.

A inizio secolo la comunità israelitica di Rodi era composta da alcune migliaia di individui, per la gran parte sefarditi. Le prime famiglie emigrarono in cerca di fortuna nei primi decenni del secolo, trasferendosi negli Stati Uniti, in Sud America, in Congo, in Zimbawe. Alcune famiglie, raccogliendo l'appello del sionismo nascente, si trasferirono in Israele. Molti altri fuggirono tra il 1938 e il 1939, dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste. Il 18 settembre 1943, dopo dieci giorni di scontri conseguenza dell'armistizio, l'ammiraglio Inigo Campioni, governatore italiano, fu imprigionato e deportato e il governo effettivo del Dodecanneso passo in mano tedesca. Il 23 luglio 1944 i circa 1.600 ebrei rimasti sull'isola furono imprigionati. Il 16 agosto, dopo un viaggio terrificante, arrivarono a Auschwitz. Solo 120 donne e 30 uomini sono sopravvissuti al campo di sterminio.

Il signore gentile e Lucia Sulam Modiano sono forse gli unici ebrei sopravvissuti alla Shoa che sono tornati sull'isola. Lucia è mancata il 2 aprile 2010. Del signore gentile non ho altre notizie.

 

Ritornare tra le bancarelle della strada Sokratous non è stato facile.

Da qualche anno, qui tra Torino e Milano, il rientro dalle vacanze è allietato da MITO SettembreMusica. Si tratta di un festival di musiche (musica forte, direbbe Quirino Principe, ma anche Jazz e molto altro) che, credo anche grazie a finanziamenti pubblici, propone un ricco ed economico cartellone. I primi anni ho fatto un po' fatica a trovare i biglietti, poi però mi sono organizzato e quest'anno, al massimo dell'efficienza, li ho comperati su internet il rimo giorno di prevendita.

Una messe di biglietti per gli spettacoli più strampalati, che ho poi condiviso con parenti e amici più o meno ignari. Ho portato i miei genitori a vedere un'immarcescibile Ornella Vanoni con lo spassoso Peppe Servillo e i bravissimi Federico Odling, Natalio Mangalavite e Emanuele Smimmo davanti alle splendide scenografie proiettate da Giuseppe Ragazzini. Ho portato un vecchio amico che, inspiegabilmente, si fida ancora, al concerto di Boulez (e comunque vedere, dalla prima fila, la bellissima Barbara Hannigan contorcersi, urlare e sussurrare non è stato poi così male). Ho portato la Luisa e altri amici con figli a vedere una bellissima fiaba di Musikanten. E poi la famigliola senza di me è andata a vedere altri spettacoli ancora.

22.IX Sede Gruppo 24 Ore_SS_03

Insomma, un discreto spasso. Ma ogni anno c'è qualcosa di speciale, di straordinario, che va oltre le tue aspettative. Qualcosa che ti ricorderai per un po'. Quest'anno, senza dubbio, l'incredibile concerto che ho visto allo Smeraldo. Suonava un sacco di gente: John Scofield (con Nigel Hall, Andy Hess, Terrence Higgins), Stefano Bollani e Enrico Rava, (con Gianluca Petrella, Giovanni Guidi, Gabriele Evangelista, Fabrizio Sferra). Quasi tre ore di concerto per 20€ di biglietto, un rapporto qualità prezzo da Granpremio Altroconsumo.

Tanti pensieri ti vengono guardando un concerto così. Pensieri sulla musica, sul futuro, su te stesso. Roba impegnativa. In questo caso, però, mi piacerebbe condividere con voi alcune osservazioni un po' laterali, quasi metodologiche.

Per esempio. Quando vai a un concerto così speri sempre con non sia una semplice giustapposizione di mini-concerti incastrati a mazzate in una serata sola. Speri che i musicisti, mossi dal rispetto reciproco, ti regalino momenti di ispirata jam session. Ma non succede mai. O quasi: improvvisamente ti accorgi che sul palco allestito per Rava e la sua Tribe è rimasto il Vox di Scofield... che se lo siano dimenticato? E invece ecco che, sul finale, l'inquieto chitarrista dell'Ohio torna sul palco e si mette a suonare con la giovanissima Tribe raviana. Ma la cosa incredibile, almeno per me, non è che Scofield si presti a qualche lirico assolo sull'accompagnamento dei suonatori estasiati; e nemmeno che riesca a improvvisare uno struggente duetto con la tromba di Rava, come se si conoscessero da trent'anni. No. La cosa incredibile è che, mentre il ragazzetti della Tribe facevano i loro assoli, Scofield accompagnava. Accompagnava seguendo gli accordi con gli occhi fissi sullo spartito, accompagnava schitarrando con lo sguardo attento della terza chitarra nell'orchestrina della Scuola Media, mancava solo la lingua fuori nell'angolo della bocca che caratterizza per molti il massimo impegno. L'umiltà dei grandi è sempre un insegnamento, incredibilmente frequente nel Jazz di qualità.

Oppure si potrebbe parlare del rapporto tra generazioni. Rava come Scofield sono, ciascuno a modo suo, un punto di riferimento della scena jazzistica internazionale: fatte le debite proporzioni tra il mondo del jazz e altre realtà, potremmo chiamarli divi. Eppure entrambi, ormai da anni, formano a cadenze regolari nuovi gruppi con giovanissimi colleghi: alimentano in questo modo la propria creatività (e forse anche il proprio ego) e, contemporaneamente, danno straordinarie occasioni a giovani talenti in crescita. Avrebbe potuto Miles Davis cavalcare l'onda per cinquant'anni senza Horace Silver, Red Garland, Bill Evans, Wynton Kelly, Herbie Hancock, Joe Zawinul, Keith Jarrett, Chick Corea, Lee Konitz, Sonny Rollins, John Coltrane, Cannonball Adderley, Hank Mobley, George Coleman, Wayne Shorter, Dave Liebman, John McLaughlin, Pete Cosey, Mike Stern, John Scofield, Oscar Pettiford, Paul Chambers, Ron Carter, Dave Holland, Michael Henderson, Art Blakey, Kenny Clarke, Philly Joe Jones, Jimmy Cobb, Tony Williams, Lenny White, Jack DeJohnette e Al Foster? (che meraviglia, il delirio della lista del jazzofilo wannabie nell'era di internet). Insomma, mica male come sistema.

Poi. La faccia del giovane pianista della Tribe di Rava quando il trombettista, a mezzanotte meno venti, fa segno che il pezzo in corso sarà l'ultimo. Un lutto, una disgrazia, un disastro. Il povero Giovanni (il pianista) avrebbe suonato fino alle tre, e quando gli ricapita? E, a guardarli bene, anche tutti gli altri sarebbero andati avanti. Insomma, in sostanza, ci hanno buttato fuori dallo Smeraldo. Altro che gli spettacoli a tassametro che troppo spesso capita di vedere.

E, alla fine, il look. L'ultimo grido sembrerebbe la camicia di fuori, a sbalzo sui ventri pronunciati da bevitori generosi. Una roba tremenda. Insomma, i jazzisti continuano a vestirsi con un'ingenuità incredibile. Non so perché, ma in un'epoca superficiale come la nostra le cravatte sbagliate sono una boccata di aria fresca.

 

Insomma, davvero una bella serata. Divertente, interessante, spettacolare. E l'occasione di riflettere su cosa succede quando c'è talento, professionalità e passione.

Avvertenza: il post qui sotto potrebbe contenere tracce di buonismo, patriottismo, speranza e altri buoni sentimenti. I lettori disillusi sono pregati astenersi dal proseguire. In caso di leggera ipersensibilità si consiglia di compensare con 10cc di Marcotravaglio o 25cc di Gianantoniostella.

Lettres de Lou

Lettera ai miei figli, Luisa e Michele.
(e.p.c. a Pier Luigi Celli e suo figlio, a disfattisti e fuggitivi, a immigrati e emigrati, a cervelli in fuga e corpi rimasti qua)

Cara Luisa e caro Michele,
mi rendo conto che è prematuro iniziare a discutere del vostro futuro, ma qui la cosa è molto à la page e pare non ci si possa esentare. Forse è un po' presto per conoscere le vostre inclinazioni, le vostre passioni e le vostre capacità. Forse ora dei vent'anni avrete deciso che "fare le pulizie" (Luisa) e "tatà cossa forte forte" (Michi) non siano necessariamente i vostri sbocchi professionali. Comunque meglio prepararsi per tempo.

Fatte le debite premesse, eccettuate le eccezioni e distinti i distinguo, qui tutti consigliano di darsela a gambe. In effetti le migliori menti della mia generazione se ne sono ormai andate, e se ve lo dico io che sono rimasto...

Non c'è che dire, è dura. Il grosso del paese vive di rendita, grandiosa o sgarrupata che sia; rendita degli avi, rendita di posizione, rendita politica, rendita mafiosa. La meritocrazia è merce da bassa retorica, tutti la invocano ma nessuno più si ricorda nemmeno cosa sia. SUV luccicanti viaggiano a gran velocità su strade scassate e inadeguate, come in un qualunque Qualcosistan in via di sviluppo. A pagar le tasse si fa la figura del pirla e far politica è diventata una parolaccia.

E quindi viene da chiedersi: ma che Italia vi lasceremo?

Quando sarà il vostro turno non potrò non cercare di aiutarvi. Spero che saprò farlo parlando con voi e non con un amico potente. Consigliandovi in una decisione e non consigliandovi a un decisore. Aiutandovi ad aiutarvi da soli. Chissà.

Nel mentre, mi porto avanti.

Vorrei proporvi una piccola riflessione. Se possediamo le peggiori università del globo terracqueo (o almeno nessuna delle migliori 200) e ciò nonostante riusciamo a formare eccellenti studiosi che tutti ci rubano; se abbiamo amministrazioni scalcagnate perse nei loro problemi e ciò nonostante abbiamo il Fuorisalone, il Festivalletteratura e Umbriajazz; se abbiamo un sistema sanitario a tratti medioevale e ciò nonostante ospitiamo eccellenze della ricerca e della medicina; se non sembra esserci un nesso tra un paese che va a scatafascio e tanti piccoli miracoli quotidiani, quale è il segreto?

Nel calcio, quando la nazionale italiana perseverava a vincere nonostante la manifesta inferiorità atletica e tattica dei suoi giocatori, si parlava di "fattore C", insomma, di una irragionevole fortuna. Anche qui la fortuna magari aiuta, ma certo non basta. Altri sono gli ingredienti che rendono possibili le improbabili eccellenze italiane. La passione, che ci porta spesso oltre ogni limite ragionevole, la creatività, forse allenata anche dalle difficoltà, e il nostro leggendario culone di pietra, che spinge ambiti scienziati, manager e professionisti a non lasciare il rione dove sono nati, nemmeno sotto minaccia di cariolate di dollaroni.

E se già che ci (o vi) tocca questo postaccio, ci rimboccassimo le maniche? Se provassimo a mandare a ranare disfattisti, parassiti, maleducati e cinici sapientoni e ci dedicassimo allegramente a ramazzare la nostra terra? Forse qualcosa si può ancora fare, rimanendo qui; forse la nave non è per forza destinata ad affondare.

Certo, lontano potrete forse fare meglio: far lavori più interessanti e ben pagati, vivere in un Paese ben governato, magari ordinato, forse addirittura giusto; non vi biasimo se deciderete di andarvene. Ma la sfida di rimettere in carreggiata il nostro sgangherato Paese non vi attizza nemmeno un po'?

Comunque, forse non è una buona idea impicciarsi delle vostre faccende. Forse la cosa migliore è che facciate un po' quel che volete, senza stare qui ad ascoltare le paturnie del vostro inopportuno padre. Ma se avrete voglia di rimanere, in tanti ve ne saremo grati. E magari ci divertiremo anche.

 

A proposito di padri inopportuni, sicuramente conoscete tutti i famosi libri di un filosofo che in italiano si intitolavano "Etica per un figlio" e così via. Il titolo originale si basava su un riuscito gioco di parole: "Ètica para Amador", dove Amador poteva stare per "non professionista", ma poteva essere anche il nome di una persona. Alcuni anni fa ho avuto il piacere di conoscere il figlio di tale filosofo. Ora, dovete sapere che il poverino si chiamava davvero Amador. E viene il lecito sospetto che quello psicopatico del padre lo avesse chiamato così, vent'anni prima, per poter intitolare i libri con il simpatico calembour. Robe da pazzi, altro che lettere ai figli. Il buon Amador, dal canto suo, aveva risolto in maniera eccellente il suo gigantesco edipo con una discreta dose di ribellione, tantissima ironia e un appetito pantagruelico. Era davvero un tipo simpatico.

Sono un tipo abitudinario. Lo sono sempre stato.

Mi vesto sempre uguale, faccio sempre le stesse cose, vedo sempre le stesse persone. Ma soprattutto ho i miei piccoli riti: protocolli procedurali che mi tengono ancorato nel disordine endemico che mi circonda (e che contribuisco in maniera fondamentale a creare). Il fatto è che mi sono scelto una vita un po' tanto complicata, per cui forse non sono neanche tagliato. Una vita che sono almeno tre, e non sono sicuro di saperne tenere in ordine una...

Ma, per fortuna, ci sono le abitudini, liturgie laiche che ci tengono a galla.

Per esempio. Da sempre vado in vacanza, quando posso, a Chiavari, nel Golfo del Tigullio, dove il mio previdente nonno ci ha lasciato in eredità un grazioso appartamento con una meravigliosa vista. Nonostante l'auto-indottrinamento pseudo-marxista cui mi sono sottoposto in gioventù, adoro questo luogo squisitamente piccolo-borghese. Ma, soprattutto, qui, non so perché, la mia ritualità raggiunge le più alte vette di soddisfazione.

Ho un giro mattutino che amo moltissimo. Scendo sul lungo mare, lo percorro verso Est (verso il mare, direbbe mia madre, dotata di un senso dell'orientamento alternativo alla realtà) fino a circa metà. Mi fermo a contemplare la vista sul Monte di Portofino poi mi inoltro nella città. Compro la focaccia nel mio panettiere preferito e torno verso Ovest lungo il carruggio principale. In piazza compro il giornale (e un giornalino alla Luisa) e ci sediamo al bar all'angolo a bere il caffè e a leggere. Poi si va al Prato a comprare la pasta per pranzo e si torna a casa. Basta così poco per rimettermi al mondo.

 

Mazzini e il campanile

Eppure potrei essere considerato un edonista, è una questione di punti di vista.

Questa primavera mi è capitato di uscire la mattina con mio padre, anch'egli assai abitudinario, e, con sprezzo del pericolo, impedirgli di seguire il suo rituale e coinvolgerlo nel mio. Dopo aver sbuffato quando ho superato il suo bar senza fermarmi, dopo aver guardato con odio la coda dal panettiere (che quasi sempre esce fino in strada, ma sono molto veloci), dopo aver pazientemente aspettato la fine del giro per comprare il giornale, mi guarda sedermi al bar con sincero e profondo stupore. Un marziano tutto verde che ordina un piatto di trofie al pesto non l'avrebbe disorientato di più.

"Ma lo beviamo seduti?" mi fa. "Si, dai, così leggiamo il giornale", gli rispondo.

Dopo mezz'oretta di cappuccio, focaccia e notizie, la Luisa tranquilla che attacca i suoi stickers, mi guarda con aria candida e mi dice "non ci avevo mai pensato". Cioè: lui, in quasi settant'anni di vita non aveva mai pensato che ci si potesse fermare al bar a leggere il giornale? Temo sia proprio così.

Così, in pochi istanti, una semplice abitudine diventa improvvisamente un lusso. E quasi mi piace di più. Insomma, per colpa di un cappuccino ligure e di un asceta bergamasco mi è toccato riflettere su cosa sia il lusso, riflessione che in verità mi è assai utile anche sul lavoro, occupandomi spesso di perseguire la felicità dei miei committenti producendo per loro un bene materiale.

Tornando alla vicenda chiavarese, si potrebbe concludere, abusando allegramente delle mirabili riflessioni di Amartya Sen, che il lusso è un concetto relativo. E quindi che il lusso è ciò che gli altri percepiscono come tale: china pericolosa, che porta a una spirale di confronti ed esibizioni. Personalmente non penso sia proprio così; penso piuttosto che il lusso sia il risultato di una delicata equazione che tiene insieme il piacevole con lo straordinario.

Il lusso è un piacere che ci concediamo con parsimonia, godendone l'attesa e il ricordo quasi quanto il momento stesso. Il lusso è un differenziale infinitesimale tra la quotidianità e lo spreco. Il lusso si può coltivare, raffinare, costruire. Il lusso, direi, è un'attitudine. Questo, almeno, per me.

 

Tornando al post precedente, ho la sensazione che ormai in Italia, anche l'onestà, la parsimonia, la fiducia e tante altre belle cose siano lussi accessibili a pochi...

Credo di avervi già raccontato come le vicende della vita mi abbiano portato a sposare un'austriaca, conosciuta in Svezia ma che parlava barese, eccetera, eccetera.

Orbene, da quando ci frequentiamo, ho sviluppato un complesso e tormentato rapporto con il tedesco. Prima di tutto ho scoperto che è una lingua molto bella: ordinata, precisa, eppure ricca e calda, e non un'accozzaglia di barbari grugniti come avevo sempre pensato. Poi ho scoperto che è difficile, davvero difficile. Il vocabolario, seppur parente a tratti di quello inglese, ha molti termini di cui è poco probabile intuire il significato. Mentre inizi a pronunciare una frase devi appuntarti sulla mano il verbo, che dirai solo una decina di minuti dopo, in fondo a tutto il costrutto. E poi le parole hanno i casi (tipo il latino, che infatti non ho mai imparato) e mentre silente li declini nella testa cercando di indovinare le desinenze, con quello sguardo un po' bovino di chi è sopraffatto dallo sforzo, i tuoi interlocutori hanno già cambiato argomento un paio di volte.

E intanto il tempo passa, tra un CD-rom e un corso intensivo, tra un App per l'iPhone una preghiera a qualche santo poliglotta, e io il tedesco continuo a saperlo pochino. Per carità, in caso di necessità capisco e, se la necessità è estrema, parlo anche, ma mi costa una fatica enorme. Così, un po' per pudore e un po' per pigrizia, nelle mie permanenze austriache tendo a rinchiudermi in me stesso (ensimismarme dicono gli spagnoli, con una parola straordinaria e intraducibile) e osservo e penso. Forse anche troppo, e finisce che faccio il sociologo della domenica (questo è un avvertimento: se non volete venire sommersi da teorie campate per aria smettete di leggere ora!).

 

Osservando e pensando, confrontando e ragionando, tendo sempre ad arenarmi nella stessa questione: perché certe cose sono così diverse? Perché c'è tutto un mondo nell'Europa centrale e del Nord dove la gente va in giro in bici, rispetta le code, tratta bene l'ambiente, paga le tasse? Dove si raccolgono i fiori e si lascia la moneta nella cassetta, dove si rispettano i limiti (e i pedoni) e dove ancora c'è una differenza tra una passerella e una spiaggia? È forse una specie di paradiso? Non credo, visto che anche in questi luoghi non mancano smagliature evidenti (pensate che in Austria ancora si può fumare nei locali pubblici), più o meno gravi e preoccupanti.

È difficile spiegare cosa accomuni questioni anche molto diverse: politiche, culturali, civili, di costume. Fondamentalmente credo si tratti di stili di vita, ma non è certo un'affermazione chiarificatrice. Ma a Vienna, facendo il bagno nel Danubio, o a Monaco, passeggiando nell'Englischer Garten, credo che la differenza si chiarisca da sé.

Intendiamoci, non penso che esista alcuna superiorità genetica: la storia della differenza antropologica è solo un alibi per non cambiare le cose. O per non affrontarle nemmeno. Alla base di questo mondo c'è, secondo me, una grande tradizione civile, europea e continentale, soprattutto urbana, di cui l'Italia è stata parte integrante. Ma poi qualcosa è cambiato, e noi ci siamo persi per strada.

La mia idea è che negli ultimi trent'anni (più o meno), mentre il mondo da una parte si massificava e un poco si imbarbariva, si sia andata costituendo in questi paesi una categoria robusta e influente, fatta di studenti e di professori, di intellettuali e di professionisti, di ecologisti razionalisti o veteromarxisti, di liberali e di radicali e di tanta gente comune. Una élite che, nelle differenze, condivide valori e stili di vita, che si è ritagliata ampi spazi nel territorio e nella società e che, anche se spesso minoritaria, ha saputo imporre la propria agenda a governanti e amministratori. Una categoria che ha a cuore i valori della convivenza civile e urbana, che ha una forte sensibilità ecologica e un marcato carattere libertario; che, al di la delle differenti matrici culturali, con spirito post-ideologico persegue obiettivi ideali ma concreti.

Bio Markt am Kollwitz Platz. Prenzlberg.

Temo che una minoranza così qui non ci sia, o non si veda. E così nel tempo si è progressivamente scavato un solco profondo e ora la distanza sembra incolmabile.

Insomma, se oggi immagino di fare il bagno nella Darsena in un giorno di luglio troppo caldo, di prendere un caffè seduto a un tavolino in gennaio senza fungo riscaldante e dehors triplo strato, di andare in bicicletta lungo piste che attraversano la città, magari con i bimbi cacciati in un carrellino, mi prendono tutti per pazzo. Figurati poi se parlo di muovermi per la città camminando, o di costruire case dove co-abitare, o di lasciare il passeggino davanti alla porta e fare la sauna senza mutandoni al ginocchio. Nella migliore delle ipotesi, ci considerano una nicchia di viziati pazzerelli.

Ne ho parlato spesso, con alcuni amici accomunati da questa passione. Abbiamo condiviso insofferenza e progetti e abbiamo spesso fantasticato di fondare una specie di movimento, di cui abbiamo anche inventato il nome (Ich bin ein Mailänder, appunto, perché noi qui ci vorremmo rimanere).

Chissà se qualcuno ci darebbe retta, chissà se qualcuno la pensa come noi...

 

Non ho mai amato la definizione di bobos di David Brooks, l'ho sempre trovata un po' superficiale, ma senza dubbio è un termine che ha avuto un certo successo. Ora, se cercate in google "bobos in Berlin", trovate l'indirizzo di un sacco di posti carini, se cercate "bobos in Milan" vi esce solo Bobo Vieri...

Nella remota ipotesi che oggi siate qui, sul mio blog, e non a Bali, in Romagna, a Fregene e nemmeno sulle Dolomiti, mi corre l'obbligo di avvisarvi che il Paolone è in vacanza. Questo, intendendo per Paolone quello del Lunedì, che l'altro, quello in carne e ossa, ne ha ancora per qualche giorno.

iLavanda

Ci rivediamo a settembre, forse riposati, magari abbronzati, con i vestiti troppo leggeri e qualche dettaglio tamarro, giusto per sentirsi in vacanza ancora per un po'. Ci rivediamo a settembre con quella sensazione un po' stridente di voglia di ricominciare e certezza di poter rimanere in vacanza ancora qualche millennio.

Ci rivediamo a settembre pieni di buoni propositi, pure di più che a Capodanno. Ci rivediamo a settembre, quando l'estate starà finendo e un altro anno se ne sarà andato, che noi siamo diventati grandi, anche se non ci va.

Io provo una personale e spiccata antipatia per Alessandro Manzoni.

Non già, come spesso accade, per essere stato costretto a studiarlo alle superiori. Diciamo che le mie professoresse di italiano erano tali (per qualità media) e tante (per cambi continui) da non portarmi mai alla reale necessità di studiare alcunché.

Il mio problema con Manzoni è un altro, e ha a che fare con il ramaiolo, l'acquaio e l'"a me mi". Il problema è che non si capisce, data la ricchezza di corsi d'acqua di ogni foggia e natura della Pianura Padana, perché cavolo egli abbia ritenuto di dover andare a sciacquare i panni in Arno. Così adesso, grazie a lui e alla Quarantana, se io dico mestolo e tu ramaiolo, se io dico lavello e tu dici acquaio, (vabbé lasciamo perdere), tu hai sempre ragione.


Il paradosso di questa vicenda, è che chi è più realista del re (e non mancano mai) pensa che si possa così sterilizzare una lingua, in barba anche al povero Alessandro. Per esempio, a me hanno insegnato fino alla noia che non si dice "a me mi", mentre la vecchia di Gorgonzola (ancora senza gomme per far la casöla), cui Renzo chiede consiglio nel capitolo XVI dei Promessi Sposi, risponde, per l'appunto, "A me mi par di sì". Quella particella, tutto fuorché una ripetizione, rafforza il personalismo dell'asserzione, ci chiama fuori da ogni oggettività, chiarisce, ben oltre la necessità grammaticale stretta, il nostro specifico punto di vista.


L'altra notte, dopo tanto tempo che non mi capitava, ho letto fino a tardi (nella fattispecie, Libertà di Jonathan Franzen). Le braccia indolenzite per la posizione scomoda, il letto stropicciato e il ventilatore acceso. Lo sguardo che periodicamente torna alla sveglia, scoprendo che il primo appuntamento della mattina si avvicina sempre più, e accettando questo moto perpetuo come ineluttabile. La realtà e la finzione che si preparano a mescolarsi nei sogni che di li a poco si impadroniranno di noi. Questo, per esempio, a me mi piace.

E così mi sono trovato a fare mente locale su una serie di piccoli piaceri, quasi invisibili, un po' contraddittori, difficili da spiegare, che costellano la vita e che troppo spesso ci dimentichiamo.

gli ottoniPer esempio, a me mi piace ascoltare la banda. Mi piace lo sguardo assorto del suonatore di grancassa, che conta mentalmente le battute. Mi piace la fifa blu negli occhi del giovane clarinettista brufoloso e lo sguardo sicuro del navigato suonatore di oboe. Mi piacciono le divise, le camicie bianche sempre troppo grandi o troppo piccole e i pantaloni talmente sintetici da parere sull'orlo dell'autocombustione. Mi piace la gara di stazza tra quel diavolo di Bombardone e il suo rubizzo proprietario.

E poi, a me mi piace il vento. Adoro le raffiche e il vento costante, non temo gli spifferi e abuso dei ventilatori. Vivo nel culto del riscontro d'aria, anche se ormai è cosa fuori moda. Forse non dovrei vivere in una città dove l'aria langue stanca ogni giorno dell'anno, ma a me mi piace Milano.

Milano mi piace di notte in bicicletta, con i semafori che lampeggiano (cui ho pagato il pedaggio di una clavicola) e i mostri rumorosi, anch'essi lampeggianti, che lavano le strade. Mi piace in agosto, abbandonata come un villaggio minerario del selvaggio West, quando trovare un bar aperto è un'arte posseduta da pochi. Mi piace quando invade gioiosa le piazze, magari colorata di arancione o dei colori dell'arcobaleno, con sprezzo delle sua altre (forse più vere) nature.

A me mi piace l'odore dei boschi di faggio e stare con i piedi nel torrente gelido per costruire una diga di sassi. A me mi piace il sapore della focaccia condita di sabbia e acqua di mare.

Pensandoci bene, a me mi piacciono un sacco di cose (queste e molte altre). Forse dovrei dedicargli più tempo.


p.s.: tornando agli aspetti linguistici, a me mi piace quando la Lulù dice che non ha paura delle macchine, tanto lei sta in parte.

Durante il mio secondo anno di università, direi nel 1993, il Politecnico di Milano inaugurò le prime strutture nel nuovo campus di via Durando, in Bovisa. Si trattava di un primo lotto di poche aule all’interno di una fabbrica abbandonata, la Ceretti & Tanfani. Noi frequentavamo qui i laboratori di progettazione e poco altro, mentre il resto delle lezioni ancora si tenevano in piazza Leonardo da Vinci.

Fu così, però, che scoprimmo la Bovisa.

La Bovisa era stata, in un remoto passato, un florida zona agricola costellata di cascine. Poi un’importante area industriale e artigianale. Poi un zona malfamata. All’inizio degli anni novanta non era più niente. E non c’era più niente. Qualche rudere di cascina e qualche ciminiera cadente. Molti abitanti anziani nelle case di ringhiera, eredità del passato operaio. Qualche delinquente agli arresti domiciliari, ma niente di pericoloso. Qualche extracomunitario, ma poca cosa. La maggior parte dei negozi sprangati da tempo o ancorati a pratiche di pura sussistenza.

In quel terreno fertile fu facile farsi tentare e, per una cifra modesta (e grazie all’aiuto dei miei genitori), comprai un negozio a piano terra e mi organizzai per usarlo come spazio di studio e lavoro con alcuni compagni di corso.

Studiare si studiava pochino, disegnare magari un po’ di più. Ma, soprattutto, lo “studio” (così lo chiamavamo) divenne il baricentro di una vasta rete di sfaccedati e perditempo dalle aspirazioni culturali e artistiche più varie. Fondammo anche un circolo: Le Bovisien.

Una delle molte attività a cui ci dedicavamo era la fotografia. Battevamo in motorino la periferia abbandonata e scattavamo improbabili foto in biancoenero. Lo stile era una mix inconsapevole tra Basilico e Cinico Tivù. Più Cinico Tivù che Basilico. Primi piani drammatici di putrelle abbandonate, gasometri altezzosi che si specchiano in una pozzanghera, rotaie a perdita d’occhio e ponti in pietra ignari del proprio destino. Di quegli anni è rimasto poco: il Politecnico è arrivato in forze e, insieme a lui, il passante. I resti industriali sono spariti, senza peraltro far posto a nulla di rilevante. Il ponte in pietra non c’è più e e gli sfaccendati si fingono occupatissimi.

Natura e artificio

È rimasta, tra noi amici di allora, la denominazione “Bovisa”. Non nel senso del quartiere, ormai noto alla città, ma nel senso di attività artistica pretestuosa e infondata. Per esempio, guardando le foto delle vacanze: “e ‘sta foto “Bovisa”, da dove salta fuori” (dettaglio di tondino metallico arrugginito che sbuca da una scogliera artificiale sul molo di Dubrovnik) oppure “Cazzo, sembra la “Bovisa”” (esposizione di ignoti sedicenti giovani promesse in uno spazio mostre a Caronno Pertusella).

L’altro giorno pensavo: l’era digitale è il trionfo della “Bovisa”. Provo a spiegarmi: pensate per esempio a Flickr e alla fotografia digitale. Non è forse possibile trovare su Flickr migliaia e migliaia di scatti “Bovisa”? Si tratta di tutti quegli scatti dalle indubbie qualità tecniche, ma dall’assai dubbia ispirazione. Il sistema automatico di Flickr li considera quasi sempre “interessanti”, ma non sono sicuro di concordare.

Credo che questa proliferazione dipenda da tre importantissime novità introdotte dall’era digitale. La prima è che, nella fotografia come nella musica o nel cinema, sono diminuiti drasticamente i costi di produzione, permettendo a tutti non solo di provarci, ma anche di fare pratica. La seconda è la facilità, attraverso la rete, di reperire informazioni tecniche, corsi, forum, tutorial e how-to. La terza, sempre grazie alla rete, è la possibilità di comunicare a un vasto pubblico (quantomeno potenziale) il risultato della propria pratica.

Da vecchio comunista con devianze anarcoidi dovrei essere felice di questa oggettiva democratizzazione del mezzo artistico. E in parte lo sono.

C’è però un aspetto che non mi piace molto e un po’ mi preoccupa di tutta questa vicenda: quello che potremmo chiamare il “trionfo dell’amatore”. La sensazione è che in questa temperie prolifichi l’idea che tutti possiamo fare tutto, senza dare particolare peso al talento e alla preparazione dei professionisti.

C’è sempre stato l’amico che cambia le ricette del medico, convinto che i suoi studi in giurisprudenza e la lettura settimanale del Corriere Salute valgano più di cinque anni di Medicina, tre di specializzazione e un tot di pratica ospedaliera. O quello che si smonta e rimonta da solo tutta la motocicletta, imprecando contro l’incompetenza e l’esosità dei meccanici, salvo trovarsi alla fine con un bullone in avanzo e una vita sociale ridotta all’osso.

Sono attitudini legittime, per carità, ma non le ho mai condivise. E mi preoccupa l’idea che stiano diventando la cifra della contemporaneità.

Mi rattrista l’idea di un mondo un po’ tutto scopiazzato, perché questo fa l’amatore. Io faccio molte cose da amatore: scatto foto, scrivo questo blog, faccio siti internet. In alcune di queste cose sono anche bravino, ma la differenza con chi le fa sul serio è abissale. E non è una differenza tecnica, o non soltanto. A me riesce ogni tanto una foto bella, un sito gradevole, un testo che scorre bene. Ma difficilmente comunicheranno qualcosa di rilevante. E ancora più difficilmente potrò contribuire alla crescita e all’innovazione di un mezzo che nemmeno domino.

È bello che ognuno di noi si diletti producendo scatti, cortometraggi, racconti, progetti e Long Playing, ma sapremo ancora riconoscere l’eccellenza, quando ci capiterà sotto mano? Sapremo ancora farci guidare da bizzose e antipatiche avanguardie verso lidi futuri che neanche ci immaginiamo? O saremo sommersi da foto “Bovisa”, dischi “Bovisa”, canzoni “Bovisa”, libri “Bovisa”. Tutti carini e di grande soddisfazione per l’autore, principe del foro o idraulico che sia, ma privi di qualsivoglia apporto alla loro disciplina o al progresso in genere?

A Milano, a luglio, fa caldo.

Allora, chi può, se ne va. In montagna, al mare, in campagna o in collina.

In villeggiatura.

Che non è la vacanza. È diverso. La villeggiatura si fa in una casa, se possibile di proprietà, se no in affitto per lunghi periodi. Si parte con tutto l'armamentario: vestiti, attrezzature, computer, cibarie. La villeggiatura è una forma di nomadismo.



Chi non può, rimane in città. Al caldo.

E il venerdì sera arriva, con i pantaloni stropicciati e la camicia a righe segnata dal sudore. La faccia ancora affaticata dal caldo, ma gli occhi sollevati dal fresco improvviso.

Io me lo ricordo, quando ero quello che aspettava.

L'altra sera aspettavano me. Non metterò mai camicie a maniche corte, ma il resto tutto uguale. Che impressione.

È che il tempo passa, e io non sono preparato.

Leggo libri e scopro che i miei ricordi sono già oggetto di racconti più o meno nostalgici. Come se ci fosse qualcosa di esotico nei gettoni di ottone della SIP (Società Italiana Pelefoni?), nelle cabine telefoniche, nelle schede prepagate. Come se rivestisse qualche tipo di interesse il golf sulle spalle, l'aranciata Sanpellegrino o le scarpe Nike.

Ospito nel mio studio ex studenti, stagisti e profughi vari. Accolgo ogni anno nuovi studenti al primo anno. Loro hanno sempre la stessa età, io no. Quando ci penso, questo lento ma inesorabile movimento mi fa girare la testa.

Guardo da fuori le cose e mi sembra di essere dalla parte sbagliata. Questo è grave.

Il giorno che mi presenterò alle porte di una discoteca, con le Nike ai piedi, il golf sulle spalle e un'aranciata Sanpellegrino in mano, qualcuno di voi mi fermerà?


p.s.: La SIP è la Società Idroelettrica Piemonte, e questo lo sappiamo. Ma l'ENEL è l'Ente Nazionale Energia Lettrica?

Ci sono esperienze nella vita che ti segnano, che rimangono impresse nella memoria, che un giorno racconterai ai tuoi nipoti. Ci sono avventure che l'uomo intraprende per sfidare i suoi stessi limiti. C'è chi attraversa la Patagonia in bicicletta, o il deserto del Mojave in skateboard, o la Via della Seta sui trampoli.

Io, sabato, sono stato in centro.

Il primo giorno di saldi.

Sales and... nuns

Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare, giganteschi SUV varcare ignari i bastioni dell'ecopass, cesti di acquisti suonare all'impazzata alle porte della Rinascente...

Ho visto gli uomini aspettare fuori, in piedi con le braccia incrociate e l'aria un po' assente, come sui sagrati delle chiese di paese nelle domeniche mattina di tanti anni fa. Oppure passeggiare nel corridoio del settore intimo femminile, aspettando la moglie indaffarata e tentando di celare l'imbarazzo, forse sopraffatti dall'eccesso di pizzi o forse memori delle peccaminose pagine del Postalmarket.

Ho visto interi clan famigliari calare dalla vasta provincia, marciando minacciosi al centro di Corso Vittorio Emanuele. Gli acquisti sono senza dubbio global, ma gli acquirenti a volte deliziosamente local.

Ho visto un gruppo di ragazzi imberbi, in coda per ore ai camerini di Hennes & Mauritz, dibattere sull'innatismo dela sezione aurea (giuro). Ho visto signore che, per non dover rifare la coda, entrano in camerino con una pila inusitata di vestiti e ci rimangono alcuni giorni.

Ho visto ragazze così poco vestite da rendere il nudo integrale molto meno provocante. Ho visto un padre di famiglia russo, in canottiera a coste e crocifisso d'oro che rimbalza sul pancione, che sembrava scappato da una pellicola di Kusturica.

Ho visto madri fare compere con figli fuori tempo massimo. (Questo, alte volte, l'ho anche anche fatto.) Ne ho viste altre (di madri) chiedere a un perplesso bimbo di otto anni un parere su una mise supersexy in chiffon trasparente.


Volevo aggiornare un po' il mio look, che il trittico blazer blu, camicia a righine e pantaloni khaki ormai è un po' inflazionato. Sono tornato a casa con un paio di bermuda. Khaki.


Almeno ho comprato un bel vestito di Desigual a mia moglie.

Ho passato un bellissimo fine settimana e avrei molte cose di cui parlarvi, ma non posso. Purtroppo si tratta di materiale segretato. Esistono regole precise che mi impediscono di attingere alle esperienze e alle riflessioni dei giorni scorsi per usi esterni.

Potremmo dire che è severamente vietato.

E' severamente vietato

A questo proposito, c'è una cosa che mi ha sempre colpito: perché in Italia le cose sono sempre severamente vietate? Non basta che siano vietate per evitare che la gente le faccia?

Forse è una cosa da poco. In fondo si tratta solo di un avverbio sprecato: in un'epoca di parole a vanvera non sembrerebbe cosa grave.

Eppure ho la sensazione che sia sintomo di qualcosa di più ampio. E più profondo. E più grave.


Quanto tempo, energie, denaro spendiamo per severamente vietare qualcosa? Quanto tempo, energie, denaro risparmieremmo se le persone non facessero ciò che non devono semplicemente perché è vietato?


Per esempio: da qualche tempo a questa parte, a Milano, vanno di moda le parigine. Non si tratta, ahimè, di piacenti ragazze francesi, ne di profumate pagnotte allungate e nemmeno di conturbanti calze a mezza coscia.

Si tratta purtroppo di più prosaici dissuasori: insulsi paletti metallici, a fine anni Novanta in lucido inox futurista, negli anni Zero in ammiccante pseudo-ghisa à l'ancienne, nell'era Pisapia si vedrà.

Dissuasori che servono a impedire fisicamente che le auto non vadano (e parcheggino) dove non devono.

Ora, mi chiedo: se non basta il buon senso a impedire al selvaggio automobilista di parcheggiare sul sagrato di una chiesa, dovrebbero bastare cartelli e multe. O no? No. Non basta che sia vietato, deve essere severamente vietato.

Devo confessarvi che questa cosa non mi convince.

Non riesco a capire se sia un eccesso di prudenza supporre che tutti i cittadini siano o cretini o felloni (o tutti e due), o se sia piuttosto crudo realismo. Se sia giusto mitragliare ogni spazio pubblico della città con centinaia di paletti per evitare che sia occupato militarmente dall'esercito delle quattro ruote. Se la cura non sia peggio del male. Se il male esista o se sia solo ipocondria.


Non so se l'esempio sia calzante, è preso evidentemente dal mio vissuto di osservatore di progetti e di spazi urbani, ma a me sembra significativo. Racconta di una società che non si fida più nemmeno di se stessa; francamente non mi sembra un buon segno.


Per rinfrancarsi, forse conviene leggere ad alta voce e in buona compagnia Attenzione attenzione di Bruno Munari.

  • Older posts →
  • ← Newer Posts

About Me

Paolo Mazzoleni
Married architect father of two. Partner of BEMaa and URBANA, adjunct professor at PoliMI and enthusiast of urbanity. Addicted to social networking, blogger.

Popular Posts

  • La polvere del palcoscenico
    ​ Quello che segue è un post insopportabilmente radical-chic, pieno di buoni sentimenti, amore per la cultura e fiducia nel prossimo e nel f...
  • Non è mai troppo tardi
    Anche quest'anno le scuole sono reiniziate. Per tutti. Il Michele prosegue la sua avventura nella scuola elementare, la Luisa si affa...
  • Il balcone balcano
    Quest'estate, per le ferie di rito, sono tornato in Croazia. Non è la prima volta che ci andiamo, ed è sempre una bella esperienza. N...
  • Un coccodrillo nero in campo giallo
    Chi mi conosce sa che farei qualunque cosa per una buona storia. Compreso: rubarla. Quella che vi racconto oggi è una storia rubata. Spero ...
  • URBAGRAMMI alla Pecha Kucha Night Milan
    Qualche sera fa sono stato ospite della prestigiosissima Pecha Kucha Night Milan vol. 16 . La serata si è tenuta allo Spirit de Milan, loca...
  • I compiti delle vacanze.
    Pomeriggio di inizio settembre, la luce rosata entra dalla finestra attraversando le foglie della vite americana, la città si prepara lentam...
  • La schiscetta e i lavoratori
    La mia mamma, in una delle molteplici vite che ha vissuto e sta vivendo, è stata professoressa di Italiano e Storia alle Scuole Medie. Credo...
  • Contaminami!
    L’otto ottobre 1998, ovvero quasi vent'anni fa, usciva per la EMI/Virgin Records Clandestino , primo album solista di José Manuel Artur...
  • Papa-Ego
    Ho già raccontato, in uno dei primi post di questo Blog, i valori che hanno caratterizzato la mia educazione e che conducono, più o meno, l...
  • Bang! Splash! Crash! Uasp!
    Come vi ho già raccontato , abito da alcuni anni (anni che, incredibilmente, con il passare del tempo, aumentano) in un quartiere sperimenta...
Labels
  • Bici
  • Case
  • Città
  • DialoghiConIlMichi
  • EserciziRodariani
  • Libri
  • Me
  • Milano
  • Musica
  • Pillole
  • Politica
  • Storie
  • Top
  • Viaggi
  • Web

Io in rete

  • Il mio CV
  • BEMaa
  • Io su Facebook
  • Io su LinkedIn
  • I libri che leggo (su Anobii)
  • Le mie foto con Instagram
  • Le mie foto (su Flickr)
  • La musica che ascolto (su Last.fm)
  • Il mio (modesto) contributo a Wikipedia Italia
  • BEMaa su Europaconcorsi
  • BEMaa su Architizer

Chi mi segue

Archivio blog

  • ►  2018 (1)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2017 (15)
    • ►  novembre (2)
    • ►  settembre (5)
    • ►  luglio (1)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (2)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (1)
  • ►  2016 (9)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  ottobre (1)
    • ►  settembre (2)
    • ►  marzo (1)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2015 (4)
    • ►  maggio (1)
    • ►  gennaio (3)
  • ►  2014 (7)
    • ►  novembre (4)
    • ►  settembre (2)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2013 (21)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  novembre (1)
    • ►  ottobre (1)
    • ►  settembre (2)
    • ►  luglio (4)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (3)
    • ►  febbraio (2)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2012 (47)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (4)
    • ►  settembre (7)
    • ►  luglio (5)
    • ►  giugno (4)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (4)
    • ►  marzo (3)
    • ►  febbraio (3)
    • ►  gennaio (5)
  • ▼  2011 (44)
    • ▼  dicembre (4)
      • Il Paolone di Natale
      • Lupo Ulula
      • L'era della nicchia
      • Ho scelto il momento sbagliato
    • ►  novembre (4)
      • La poesia costa poco
      • La vertigine dell'hyperlink
      • 12 11 2011 21 43
      • Woody Allen sul divano
    • ►  ottobre (4)
      • Papa-Ego
      • Fuori sincronia
      • Il coccodrillo come fa?
      • La sinagoga di Rodi
    • ►  settembre (4)
      • il MITO del jazz
      • Lettera ai miei figli
      • Il senso del lusso
      • Ich bin ein Mailänder
    • ►  agosto (1)
      • Il Paolone in vacanza
    • ►  luglio (4)
      • A me mi piace
      • Il fotografo della Bovisa
      • La camicia a righe
      • Il sabato del villaggio
    • ►  giugno (4)
      • È severamente vietato
    • ►  maggio (5)
    • ►  aprile (4)
    • ►  marzo (4)
    • ►  febbraio (3)
    • ►  gennaio (3)

Cerca nel blog

Il Paolone del lunedì

Divagazioni periodiche prive di costrutto

  • Home page

© Paolo Mazzoleni - Alcuni diritti riservati Licenza Creative Commons