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Il Paolone del lunedì

Divagazioni periodiche prive di costrutto

Amici carissimi del Paolone,
eccoci qua per un altro Natale insieme.

Vi garantisco che quando tutto questo è iniziato, non l'avrei proprio detto... Comunque, anche se con un po' di fatica e un po' in affanno, siamo pronti alla terza stagione di questo inutile ma appassionato blog.

Come l'anno scorso (quindi, come direbbe il mio amico Camillo, ormai è tradizione) ho messo, pur con molti dubbi, su carta una annata intera del Paolone. Per chi ne volesse una copia, basta chiedere. Per chi stesse ancora aspettando quella dell'anno scorso, non demordete, prima o poi arriveranno.

Intanto un affettuoso augurio a tutti per una Natale felice, in attesa di un nuovo anno non più bisesto e, speriamo, un po' meno molesto.

Da un po' di tempo leggo La Stampa con una certa frequenza e con piacere. Sarà Mario Calabresi, sarà la presenza di alcuni editorialisti che stimo (Irene Tinagli soprattutto, ma anche Gianni Riotta, Mario Deaglio e tanti altri, senza dimenticare il golem-melog-hiano Gianluca Nicoletti). Sarà il prode Gramellini, che quando non è troppo populista o troppo Fazio-so è un vero piacere da leggere. Sarà che il tutto (o quasi) è gratis su iPhone. Fatto sta che ormai sono un lettore abbastanza assiduo del giornale torinese.

Qualche tempo fa, però, ho letto su questo giornale un articolo che mi ha lasciato molto perplesso. La Stampa ospitava Francesco Guerrera, caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Senza volere qui semplificare troppo i ragionamenti articolati e ben argomentati del giornalista, vorrei richiamare il passaggio che mia ha colpito di più:

"Il vero problema è se i giovani di belle speranze di Harvard, Oxford e della Bocconi decidono in massa che la finanza non fa più per loro, perché la vedono come sporca, poco lucrativa od entrambe. O se le banche, incapaci di fare soldi come un tempo, smettono di assumere. Se ciò accadesse, il riflesso condizionato dell’opinione pubblica sarebbe quello di applaudire il ridimensionamento della finanza.
Attenzione, però, alle conseguenze a lungo termine. Un «drenaggio dei cervelli» in un settore così fondamentale potrebbe avere serie ripercussioni per il resto dell’economia."

Il mio leggendario (e più volte qui richiamato) culopietrismo, fa si che mi accompagni ancora, per la gran parte, con amicizie di vecchissima data, senza disdegnare parenti stretti e lontani. Si usa dire che gli amici te li scegli, mentre i parenti no. Sicuramente vera la seconda (anche se un libro che piace molto ai miei figli sostiene il contrario), ma, in fondo, anche gli amici dell'adolescenza è difficile pensare che siano scelte particolarmente coscienti. Eppure molti tratti accomunano la gran parte delle persone a cui sono più legato. Sarà un ceto di provenienza abbastanza simile (anche se non identico), sarà un retroterra culturale paragonabile (anche se certo non omogeneo), sarà che, crescendo, ci siamo influenzati l'un l'altro. Comunque, guardando ai coetanei che mi circondano, amici e parenti, mi sembra di vedere una comunità con parecchie caratteristiche in comune.

Per esempio, la maggior parte (praticamente la totalità) di noi ha fatto studi tecnici o sociali, mentre nessuno ha lauree in economia. Abbiamo tutti cominciato con lavori scelti con passione, e non solo badando al portafogli. Ci sono ingegneri, architetti, medici, psicologi, perfino un filosofo. Che hanno scelto di fare gli ingegneri, gli architetti, i medici, gli psicologi, perfino gli sviluppatori web.

Si tratta, in gran parte, di persone intelligenti e dotate — la vita lo ha dimostrato più di quanto le scuole non seppero riconoscere a suo tempo — che ritengo possano essere ragionevolmente utili al mondo. La maggior parte di loro, vi dicevo, ha iniziato a lavorare seguendo più le vocazioni e le passioni che il calcolo economico. Oggi molti di loro si occupano di finanza. O di banche. O di vendita. Insomma, quella roba li. Almeno fino ad ora, l'esatto contrario di quanto temuto da Francesco Guerrera nel suo articolo.

Le migliori menti di una generazione hanno abbandonato mestieri di ogni genere in cui facevano cose per approdare a mansioni manageriali o finanziarie. C'è che ha investito patrimoni in tostissimi e rinomati M.B.A. e chi si è riciclato con acume e spirito autodidatta. C'è che vende aggeggi di sutura e chi compra energia elettrica, chi vende soldi e chi compra denaro, che consiglia chi vende e chi consiglia chi compra quelli che vendono.

Niente di male, ci mancherebbe.

Però.

Sarò un vetero-marxista impenitente (ma non credo), sarò un inguaribile figlio di sessantottini (ma non mi pare), sarò un polveroso cattocomunista (come inspiegabilmente pensano in tanti), ma mi vengono spontanee alcune domande. Ma se tutti comprano e vendono e consigliano, ma chi è che fa? Dove va un mondo dove le aziende spendono più per promuovere che per produrre, più per finanziare che per innovare?

Sono ormai una persona ragionevole, o faccio del mio meglio per fingere di esserlo, e sono pronto a sostenere, almeno in pubblico, che la finanza sia una parte necessaria del nostro sistema, che non ci sia nulla di male a guadagnare soldi facendoli girare, o almeno facendolo alla luce del sole.

Ma non sono ancora pronto ad abbandonare un romantico attaccamento per il fare, per l'ingegnere con la penna bic che disegna macchine fantasmagoriche, per l'imprenditore che re-inventa la penna bic che serve all'ingegnere, per il medico che ti cura, per l'architetto che progetta i luoghi dove vivi, al limite perfino per chi disegna i siti che visiti virtualmente. Gente che fa cose, niente di più. Non dico che dovrebbero comandare il mondo (o forse si?) ma mi piacerebbe almeno che non fossero considerati di serie B, che non guadagnassero un ventesimo di un broker ventenne strafatto del suo stesso testosterone (a proposito di guadagni, Adriano Olivetti, ingegnere per antonomasia, sosteneva che "nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minino", e non era certo un vetero-marxista; non che la questione sia puramente economica, ci mancherebbe, ma a fronte di certi stipendi, il dubbio ti viene).

In definitiva, al contrario delle preoccupazioni che affliggono Francesco Guerrera, credo che uno dei tanti mali della nostra epoca sia proprio la fuga di cervelli verso la finanza, dove lauti guadagni e grandi soddisfazioni attirano molte delle migliori menti di una generazione. A fare le cose per davvero siamo rimasti solo noi, un po' tarlucchi, romantici demodé ancora schiavi di un ideale quasi ottocentesco dell'imprenditoria e delle professioni. Siamo tipi interessanti e spesso simpatici, ma non sono le qualità cui bada il tizio in gessato con relativo M.B.A. che fissa i criteri per concedere i mutui.

 

Da poco meno di un anno Christian Rocca dirige "IL", magazine maschile del Sole 24 ore. Molte cose mi dividono da Christian Rocca, specialmente in questioni di politica. Ma molte di più mi uniscono, soprattutto in questioni musicali. E, da quando lo dirige lui, IL è un giornale davvero speciale. Il numero 46 del mensile, uscito nel novembre 2012, porta il suggestivo titolo "un governo di politecnici" e sostiene, in modo molto più completo, complesso e argomentato, e con una grafica straordinariamente più figa, grosso modo quello che cercavo di spiegarvi qua sopra. Procuratevelo, ne vale la pena.

Che poi, dopo aver fatto la guerra e, in qualche modo, averla vinta, uno ci ha voglia di ballare, mi pare logico.

 

A Milano, nel 1945, appena cessate le ostilità, i giovani componenti della 48° Brigata Matteotti decisero di impegnare il premio conferitogli dal C.L.N. per aver catturato un gerarca in fuga per ricostruire la sala da ballo "el buschett" di viale Monza, andata distrutta nel tragico bombardamento del 20 Ottobre 1944. Dopo aver convinto il titolare a cedere la proprietà dei locali, nel novembre del 1945 nacque il Circolo Familiare di Unità Proletaria. Il circolo, che aveva ereditato la vivacità delle precedenti case del popolo (distrutte dal fascismo) e della società di mutua Ars et Labor, radicata in quel territorio dalla fine dell'Ottocento, era animato dalla "Società Baristi", composta da oltre cento volontari che prestavano gratuitamente il loro servizio di baristi, e da altri soci volontari addetti alla conduzione della Sala da Ballo. L'attività aveva una sua efficacia economica e questo permise, con una serie di ritrtutturazioni e ampliamenti successivi, di ospitare le sedi del P.C.I. e del P.S.I., l'A.N.P.I., l'Associazione Proletaria Escursionisti, la Bocciofila, il Gruppo Sportivo Caccia e Pesca, il Circolo Culturale Roberto Battaglia, la Ristorazione, gli "Amici della Lirica" e la Società Ciclistica Sport Club Giovanni Gerbi. Il Circolo ebbe un ruolo fondamentale nel promuovere la coesione sociale di un settore urbano che, in pochi anni, passò dal essere un piccolo borgo semi-agricolo a un popoloso quartiere della città. Il tutto, fondamentalmente, ballando.

A partire dagli anni settanta, il modello di gestione volontaristica entrò in crisi e si susseguirono una serie di diversi assetti gestionali e proprietari; sono passati di qui anche il Teatro Officina di Massimo De Vita, la Cooperativa Casa Edificatrice, la Società Calcio Gorlese. Oggi, dopo alterne vicessitudini e periodi di grande difficoltà, gli edifici ospitano lo Zelig, famosissimo e seminale cabaret, il disco-bar Ragoo e il circolo del Partito Democratio "Luciano Lama".

Al primo piano rimane, però, il salone con il bar dove, sopravvissuto a mille traversie, resiste il Circolo Familiare di Unità Proletaria. E qui, ancora oggi, soprattutto, si balla.

Alla domenica pomeriggio, i patiti del liscio si scatenano con orchestrine dal vivo, e la romagna non è poi così lontana. Il venerdì sera, da ormai sedici anni, l'Associazione Tangoy trasforma lo stanzone in una milonga e si balla il tango argentino, a volte con musiche programmate dai musicalizadores, a volte con musica dal vivo.

 

Sabato sera, dopo una giornata tra le più dure degli ultimi tempi, sono stato in viale Monza 140 al Circolo Familiare di Unità Proletaria. Al sabato sera, il circolo diventa Jumpin' Jazz Ballroom, il locale dove si suona, rigorosamente dal vivo, dell'ottimo jazz (dal Dixieland al New Orleans, dallo Swing al Bebop) e anche, alle volte, del gran buon blues. Sabato, dicevo, ci suonava Egidio Juke Ingala con i bolognesi the Jacknives. I Jacknives sono Marco Gisfredi, chitarrista raffinato e convincente, Enrico Soverini, batterista dei più fini, e Max Pitardi, bassista allampanato e instancabile. Il Juke è, semplicemente, una potenza della natura.

Sul sito del Jimpin' (come lo chiamano gli habituée), in fondo alla locandina dell'evento, appare la promettente scritta "boogie dancers & lindyhoppers welcome". Arriviamo, vi dicevo, provati da una giornata faticosa e ci troviamo in coda per entrare con una fauna che un milanese definirebbe da Baggina. Ci guardiamo perplessi e raggiungiamo un po' scoraggiati il nostro tavolo, posto, come gli altri, a circondare un grande vuoto centrale. L'Egidio si mette poco dopo a suonare, iniziando il concerto con una puntualità rara nell'ambiente della musica dal vivo e che noi interpretiamo come riguardo nei confronti del pubblico di pensionati in età.

Ed ecco che magicamente, come in uno spezzone dimenticato di Cocoon, gli astanti si alzano alla spicciolata, raggiungono il grande vuoto centrale e iniziano a ballare. All'inizio, complice un pezzo lento e suadente, con delicatezza e circospezione, poi sempre più decisi e veloci, e infine dimenandosi come indemoniati. Le facce très blasè non tradiscono alcuno sforzo fisico e i pochi giovinetti sembrano i più affaticati. Le dame passano di mano in mano, i muscoli guizzano sotto le magliette aderenti, le cinture bianche brillano tra i passanti neri e le scarpe cigolano sulle marmette del pavimento anni Cinquanta.

La serata è passata con grande piacevolezza, ascoltando un Blues convincente e onesto, bevendo una buona birra, chiacchierando con insoliti amici e godendosi lo spettacolo di questi attempati e poetici ballerini. Sono tornato a casa più sicuro che mai di aver capito molto poco della vita.

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Paolo Mazzoleni
Married architect father of two. Partner of BEMaa and URBANA, adjunct professor at PoliMI and enthusiast of urbanity. Addicted to social networking, blogger.

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