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Il Paolone del lunedì

Divagazioni periodiche prive di costrutto

Originariamente pubblicato su Il Calibro.

Anche quest’anno, come ogni anno, MITO SettembreMusica accompagna il Paolone nel duro rientro dalle vacanze. E, come ogni anno, si merita un post (quasi) in esclusiva.

MITO Settembre Musica

Il festival, diretto da Enzo Restagno e nato nel 2007 – grazie al gemellaggio culturale tra Milano e Torino – come estensione del trentennale festival torinese Settembre Musica, ospita in più di settanta location (tra teatri, auditorium, chiese, cortili e piazze di Torino e Milano) spettacoli di musica classica, jazz, rock, pop e musica etnica, a cui si aggiungono incontri, tavole rotonde, proiezioni di film e, sopratutto, una serie di spettacoli per bambini e ragazzi sempre bellissimi. Quest’anno abbiamo visto un solo concerto ma, come sempre, quasi tutti gli spettacoli per bambini.

Domenica ho portato il mio figlio cinquenne e il suo compagno di scorribande a vedere l’Invisibile, meraviglioso spettacolo creato da Elena Burani e interpretato con il Collettivo 320Chili (Piergiorgio Milano, Fabio Nicolini, Roberto Sblattero, Francesco Sgrò) accompagnati da Luigi Palombi (pianoforte) e Lorenzo D’Erasmo (percussioni).

Lo spettacolo era davvero molto bello, piacevole e avvincente anche per un adulto. Ma io, vi devo confessare, non sono riuscito a seguirlo con serenità: ero infatti di continuo distratto dal luccichio emesso dal signore alla mia destra che, al buio del Teatro dell’Arte, risplendeva nella luce tetra dello schermo del suo iPhone. Il tapino, che – a giudicare dai tratti somatici – era con ogni probabilità un cittadino d’Albione, compulsava con ansia le pagine del Daily Telegraph: mi sono trovato così a immaginare quanto per quel popolo sia stata traumatica la tenzone nazionalistica delle passate settimane.

E così, mentre lo spettacolo iniziava a prendere (letteralmente) quota, io mi agitavo al pensiero del mio gaelico vicino che si dannava per le sorti del suo paese.

Non mi è chiaro come ci si possa distrarre dalle meraviglie che Elena Burani compie sulla corda aerea: so che mi giudicherete con indulgenza se vi confesserò che, oltre che spettacolare, era  anche davvero sensuale. Percependo però con nettezza il persistere del chiarore al mio fianco, decido di controllare come procede la navigazione del mio vicino, sbirciando il video del suo smartphone. Il poverino era passato nel frattempo a La Repubblica, che francamente mi pare giornale non del tutto confacente gli alti standard del giornalismo d’Oltremanica, ma, tant’è, sappiamo quanto può essere spaesante vivere in un paese lontano nei momenti topici della storia della propria nazione.

Con eleganza e foga al contempo, un tizio rotola in una gigantesca ruota da criceti, forse metafora delle nostre vane preoccupazioni, e il fulvo spettatore mio contermine è giunto ormai a Il Fatto Quotidiano: deve essere davvero disperato.

Sul palco domina ora un allampanato giocoliere, che lancia e riprende le sue cinque clave con un ritmo sincopato e sorprendente, aiutandosi con mani, braccia, piedi e compagni di recitazione. L’emissione di luce alla mia destra non accenna però a smettere e, tornato a interessarmi dei fatti privati del mio vicino, scopro che cerca di capire grazie a Google quale sia il punto di break even nella produzione di olio vegetale: pensate quali bizzarre implicazioni possono avere le smanie di indipendenza!

Acrobazie sempre più complesse e convulse prendo forma sulla ribalta mentre l’irrequieto al mio lato seleziona accuratamente faccine per il soggetto di un messaggio email: inizio ad avere qualche dubbio.

Dopo un’ora e mezza di poetiche acrobazie lo spettacolo volge al termine. Grandi e piccini, vinti dall’incanto, applaudono come forsennati. Applaude con scarso entusiasmo anche il mio vicino, infilato svogliatamente in saccoccia il marchingegno infernale con cui ha spimpolato per tutta la durata dell’evento. Poi si alza e, con un sorriso di plastica, raggiunge la famiglia seduta qualche fila avanti.


Pensandoci meglio temo di dover rettificare: non si trattava, credo, di un sofferente cittadino di Albione, quanto piuttosto di un grandissimo coglione.

Originariamente pubblicato su Il Calibro.

Novecentosessantanove caratteri al minuto: tanti ne sa digitare tal Carlo da Vicenza, campione mondiale di scrittura su tastiera 2014; ma saprà cosa scrivere?

Olivetti Lettera 22

Stamattina, sulla porta, mia figlia guarda il fratellino pronto ad uscire ed esclama: “Sei un gallo!”. Lei intendeva l’espressione in senso letterale, giacché il Michele, fresco di parrucchiere e sottratta la spuma Ricci Perfetti della madre, si era modellato i capelli sulla testa a mo’ di cresta. Voi capirete però – o, almeno, capiranno i lettori miei coscritti – come questa frase mi abbia gettato in un lisergico flashback fatto di Bestcompany e Najoleari, cinturoni e piumini, galli e squittinzie.

Dell’inutilità costitutiva della mia generazione si è già detto, e non vorrei insistere. Ripensavo oggi invece alla lingua assurda che parlavamo: un’apoteosi di soprannomi, diminutivi, iperboli e stranezze varie, il tutto farcito di una dose smisurata di anglicismi. Sembrava saremmo stati la prima generazione di una nuova epoca di pura oralità: il telefono, la radio, la famigerata televisione erano destinati a cancellare dalla civiltà occidentale la parola scritta. L’arrivo e poi l’universale diffusione del telefonino e, con lui, del chiacchiericcio vacuo che esso ispira in molti di noi, parvero confermare le previsioni dei molti Solone dal facile vaticinio.

Poco dopo il cellulare, arrivarono gli SMS: piccoli messaggi di testo con il fondamentale merito di non gravare (o quasi) sulla bolletta. Giovani e meno-giovani diventarono così campioni nel condensare in centosessanta caratteri comunicazioni, avvisi, necessità e umori. L’abilità di far danzare le dita sulle microscopiche tastiere e marchingegni infernali quali il T9 (che alle volte prendeva il sopravvento troncando relazioni sentimentali e amicizie decennali) permettevano di scrivere molte cose e con gran velocità. L’abitudine all’oralità e l’estrema stringatezza resero però necessaria l’introduzione di indicatori di umore che chiarissero il contesto, il tono e il carattere delle comunicazioni: nell’economia dei brevi messaggi testuali, nacquero così le emoticon, riproduzioni stilizzate delle espressioni facciali composte di sola punteggiatura.

I Soloni di cui sopra si affrettarono a escludere che si stesse tornando alla parola scritta, non essendo possibile in nessun modo chiamare scrittura quella fastidiosa sequenza di lettere sbagliate, abbreviazioni improprie e faccine punteggiate che gli SMS erano diventati.

Poi arrivò Internet: i forum, i blog, le email, le chat e, alla fine, i social network.

Difficile dire oggi quante parole vengano scritte ogni giorno da ciascuno di noi: ho anche provato a cercare su Internet, ma non ho trovato nessuna statistica affidabile. Mi sembra comunque evidente che mai si è scritto tanto. Mandiamo mail, scriviamo messaggi, aggiorniamo status, twittiamo, postiamo, commentiamo. E poi auto-pubblichiamo libri, costruiamo intere bibliografie che si suppongono scientifiche schiacciando il bottone di una fotocopiatrice (l’olio di gomito dei vecchi ciclostile almeno misurava la motivazione dello scrivente). Forse scriviamo in vano, senza utilità per nessuno (questo blog né è la prova evidente); forse scriviamo troppo, costruendo castelli di parole intorno alla fragilità del nostro quotidiano. Sicuramente scriviamo male: con troppa fretta, troppa superficialità, troppa approssimazione. Perdiamo per strada punteggiatura e maiuscole, accenti e apostrofi, congiuntivi e condizionali, sinonimi più precisi e locuzioni adeguate.

Eppure scriviamo. L’intero mondo occidentale scrive come mai prima: una massa inusitata di lettere, di parole, di frasi che si riversa su ciascuno di noi attraverso la rete.

Personalmente, giudico con una certa severità la sciatteria del nostro scrivere (pur cadendoci per primo, e non di rado). Ma guardo con grande simpatia a questa nuova messe di parole scritte, all’affannosa costruzione di una lingua sempre più globale, al linguaggio che, immemore delle occasioni formali del tempo che fu, si fa quasi sceneggiatura di discorsi immaginari. Mi piace leggere e, con un certo allenamento nel saper cogliere la web reputation, trovo in rete molti piacevoli e interessanti testi con cui dilettarmi. Mi piace ricevere e scrivere messaggi di posta elettronica (mentre odio telefonare), ne curo la forma e cerco di intrattenere il mio interlocutore. Scrivo molto anche per lavoro, anche più di quanto non mi sia richiesto. Il tutto con buona pace dei Soloni che ci immaginarono analfabeti di ritorno.

 

Lasciate, con l’indulgenza che si riserva agli amici brontoloni, che concluda questo piccolo ragionamento con la solita morale finale. Dicono che nelle scuole si dovrebbe insegnare l’informatica, addirittura, pare, fin dall’Elementare: mi sembra, se posso, una solenne cavolata. Non serve certo conoscere un linguaggio di programmazione o l’itinerario di un elettrone per farsi largo nella Società dell’Informazione. Servono, mi pare, due fondamentali abilità: saper scrivere e saper cercare. E per scrivere e cercare servono le buone lettere, un po’ di sana logica e qualche solido rudimento di filosofia: e questi chi li insegna ai nostri figli?

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Paolo Mazzoleni
Married architect father of two. Partner of BEMaa and URBANA, adjunct professor at PoliMI and enthusiast of urbanity. Addicted to social networking, blogger.

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