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Il Paolone del lunedì

Divagazioni periodiche prive di costrutto

La Discoteca (ricordi personali per un selezionato pubblico di inguaribili nostalgici)

I muri bianchi, un po' scrostati e istoriati con strani disegni, e le colonne gialle. Per terra: le mattonelle di graniglia, un po' irregolari e cos ì fuori contesto. Da un lato, il telo che che nascondeva il modesto palco. Tutt'intorno le sedie azzurre troppo piccole, con le gambe di ferro che stridevano contro il pavimento ogni volta che qualcuno le spostava per sedersi a cavalcioni. Fuori, oltrepassati i vigilanti e la porta di ferro bianco e vetro con lo stucco che si sgretolava, l'aria frizzante, il buio e il cielo stellato sopra la ghiaia del Terrazzino. 

Non ricordo, sinceramente, su quale musica ci dimenassimo. Ma ricordo distintamente i lenti. 

La prima tripletta, la più delicata, da cui poteva dipendere la sorte della serata (o addirittura di tutto il turno) iniziava con Live to tell: lungo, sfiancante, senza pietà nello svelare l'assenza di chimica tra le coppie mal assortite. Il terzo pezzo era l'impegnativo Russians, che iniziava addirittura con Prokofiev, dove ormai i giochi erano fatti. In delicatissima posizione di cerniera, regnava Careless Whispers: sbarazzino, un poco più veloce, non troppo lungo. L'ideale per  conoscersi, per scoprirsi. Il tempo di qualche colpo sul rullante per mettere all'angolo l'agognato partner di ballo e, prima che il sax iniziasse il suo lamento che rimarrà uno dei simboli degli anni ottanta, bisognava essere in pista. 

L'odore melenso di Lulú e quello pungente di Drakkar noir si sommavano, senza riuscire a sostituirlo, a quello acre del sudore adolescenziale. Le mani sulle spalle e sui lombi, con i bacini ben distanti, per i più piccoli e per i più timidi. Qualche vago abbraccio per i più coraggiosi. Il mento della ragazza appoggiato ironico sulla spalla del poverino che ancora cercava di capire se era solo una bella amicizia o se si poteva sperare in qualcosa di più. Pochi azzardavano un bacio, una carezza, la mano sulla schiena che resisteva a fatica all attrazione della gravità. Rarissimi spericolati limonavano senza pudore. 

Ognuno ha l'educazione sentimentale e i ricordi musicali che gli toccano. Questi sono quelli della mia adolescenza al Villaggio Resegone.

La mia mamma, in una delle molteplici vite che ha vissuto e sta vivendo, è stata professoressa di Italiano e Storia alle Scuole Medie. Credo insegnasse anche Geografia, ma qui si entra nel campo del mito (anche considerato che per lei una mappa ha lo stesso grado di decifrabilità di un quadro di Pollock). Orbene, come credo di avervi già raccontato in un altro post di questo inutile blog, oltre a quanto previsto dai programmi ministeriali (e oltre a una particolare passione per i casi più particolari e strampalati), sentiva il dovere di passare ai propri alunni alcuni elementi valoriali fondamentali. I due capisaldi di questa operazione erano la Storia partigiana (a suon di proto-multimedialità con diapositive e registratori) e lo Statuto dei lavoratori (mandato a memoria come un Pascoli o un D'Annunzio). Io non sono mai stato un figlio oppositivo o ribelle (anzi, tutt'altro) e porto quindi con me come elementi costitutivi questi due ingredienti.

Prendiamo per buona l'adesione ai principi che sottesero la lotta di liberazione, anche come elemento identitario (è inutile negarlo, si tratta anche di questo... tenete conto che mio figlio di sette anni pretende con frequenza allarmante che gli sia cantato Fischia il vento). Rimane il tema dei Lavoratori.

Ormai ho passato i quaranta, ho rinunciato da tempo mio malgrado all'insegnamento quale strumento per dar da mangiare ai miei figli, ho esplorato gli abissi di mortificazione economica della professione e alla fine ho trovato faticosamente una strada come Libero Professionista e – quindi – imprenditore di me stesso (sono un ribelle, mamma!).

Rimane dunque inevasa tutta la contraddizione interna rispetto alla questione dei Lavoratori.

Per esempio: quest'oggi, casualmente ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, scioperano gli addetti di Milano Ristorazione e quella santa donna di mia moglie, oltre a tutto il resto, ha dovuto preparare anche la schiscetta per pranzo per i nostri due figli. Niente di grave: qualche imprecazione più del solito, i figli divertiti dall'idea del pranzo al sacco e allettati dai loro cibi preferiti e io serenamente dilaniato tra il sacro diritto allo sciopero e alla difesa dei diritti dei lavoratori e la sottile sensazione di essere un po' presi per il culo.

Vabbè, vi lascio che devo andare a fare il professore (ah, se la mia mamma sapesse che questa carica tanto prestigiosa e importante in quel sistema valoriale di cui si diceva poco fa, si è ridotta per il suo figlio ribelle (!?) e per tanti altri a un hobby dal vago riconoscimento sociale ed economico... e non possiamo nemmeno scioperare!)

Domenica, finalmente, si vota. Io, tra dubbi e incertezze, voterò sì. Ma non è di questo che vi volevo parlare, quanto piuttosto di quanto mi abbia stufato e fatto arrabbiare questa campagna elettorale e di quali timori io abbia per il futuro.

Una delle poche barzellette che racconta mio padre – l'unica che non coinvolga bergsmaschi, alpini o alpini bergamaschi – racconta di un tizio che, viaggiando in treno, subisce il tormento del vicino, che incessantemente si lamenta della tremenda sete che ha: "Mamma che sete che ho, mamma che sete che ho, mamma che sete che ho..." Quando ormai il nostro povero tapino pare giunto alla crisi di nervi, passa finalmente il carretto delle vivande e il vicino si può così dissetare. Appena dissetato, però, il vicino tira un sospiro di sollievo e comincia, fresco fresco, una nuova liatania: "Mamma che sete che avevo, mamma che sete che avevo, mamma che sete che avevo..."

Questo è il mio più grande timore: che lunedì si smetta di parlare del referendum che ci sarà, solo per parlare del referendum che c'è stato. Sarebbe bello invece che gli esponenti delle avverse fazioni, dopo essersi stracciati le vesti per le drammatiche sorti cui sarebbe andata incontro la loro amata Repubblica se avesse vinto il monosillabo avverso, si dedicassero, vincitori e vinti, alla cura di quella Repubblica, che qualche bisogno di cura senza dubbio ha.

(L'altra barzelletta assai pertinente sarebbe quella del carabiniere che controlla le luci dell'auto: Funziona la freccia? Si, No, Si, No, Si, No...)

Ieri, tornando a casa in bicicletta dal lavoro, mi accorgo di avere la ruota posteriore un po’ sgonfia. Accosto in un parcheggio libero davanti a una caserma dei Carabinieri, prendo la pompa dalla borsa, mi accoscio e inizio a gonfiare.

Uno zelante Carabiniere esce dalla sua guardiola, mi si accosta e dice: “cosa sta facendo?” e io penso: “sono prostrato per la mia salat quotidiana al dio della bicicletta”, ma rispondo “mmm?””. Allora lui: “Sta gonfiando la ruota?” e io penso: “no, è un esercizio per tonificare i tricipiti, lei non lo fa?”, ma dico “mm-m”. A quel punto, il Carabiniere incuriosito mi chiede “Era sgonfia?” e io penso “no, gonfio solo le ruote già gonfie, è un mio hobby, lei che hobby ha? Colleziona ovvietà? Scrive testi per il cabaret?”, ma dico “e già…”. “Deve spostarsi” mi dice lui “altrimenti se arrivano a parcheggiare le vengono addosso”. "ottimi piloti, i suoi commilitoni", penso, "ok", dico e rassegnato, raccolgo armi e bagagli e mi trasferisco dall’altra parte della strada.

Ho sempre provato una istintiva simpatia per i Carabinieri e uno strisciante senso di colpa ogni volta che raccontavo o sentivo raccontare barzellette ai loro danni… bisognerebbe che però anche loro collaborassero in maniera un po’ meno zelante alla costruzione dello stereotipo di cui sono vittima.

Definitivamente, non sono abbastanza coraggioso (o incosciente) per essere sagace quanto vorrei.

Oggi mi è successa una cosa davvero strana.

Ero in motorino, fermo a un semaforo di corso Sempione – l’ultimo, prima della zona pedonale – quando una signora che stava questionando con uno che voleva lavarle il vetro è avanzata di qualche metro, salendomi sul piede con la ruota anteriore destra della sua piccola BMW. Io ho cacciato un urlo, forse più di spavento che di dolore. Mentre lei mi guardava visibilmente costernata, il passeggero – marito, compagno, amante, fratello, amico, collega o semplice conoscente che fosse – ha abbassato il finestrino per abbozzare qualche vaga scusa. Dato che, nel frattempo, era scattato il verde, ho proposto che accostassero dopo il semaforo. A questo punto il tizio ha iniziato a insultarmi con una tale veemenza che sembrava io fossi l’offendente e non l’offeso. Ero talmente basito dall’assurdità della situazione che ho lasciato che se ne andassero senza lamentarmi oltre.

Di questa esperienza mi rimane: tre dita del piede sinistro un po’ bluette, la foto della targa della schiacciapiedi, la sensazione che il nostro mondo sia un po’ allo sbando e un profondo dispiacere per la signora che deve accompagnarsi con uno stronzo di tal fatta.

Ho quarantadue anni e due splendidi figli di dieci e sette. A volte con mia moglie ci diciamo che avremmo potuto farli prima: aspettavamo vanamente una sicurezza e una compiutezza che non sono mai arrivate (quindi tanto valeva…) e alla fine ci siamo decisi anche perché abbiamo famiglie unite e ragionevolmente benestanti, abbastanza da darci l’aiuto e le sicurezze che altrove non avremmo trovato. Se potessi dare un consiglio a un amico o un amica che vuole dei figli, gli direi di farli presto, che è più facile e divertente. Ma non sempre è possibile, e non sempre è desiderato. E poi, soprattutto, io non sono mica un ministro (per fortuna mia e vostra), perché in quel caso magari mi occuperei di costruire politiche serie in aiuto di chi figli ne vuole (fare, adottare, crescere, amare), piuttosto che perdere tempo e risorse in proclami surreali e, in fondo, anche un po’ offensivi.

Certe volte bisogna avere il coraggio di essere onesti con se stessi. Io, per esempio, questa mattina voglio fare una difficile ammissione: sono un razzista. Però anche voi dovete capirmi: ogni mattina, andando verso lo studio in motorino o in bicicletta, ne incontro davvero tanti. In corso Sempione, lungo viale Elvezia: ai semafori, a volte perfino in mezzo alla carreggiata. Invadenti, arroganti. Faccio finta di non curarmene, ostento tolleranza, ma è difficile dissimulare i veri sentimenti. Insomma, diciamo senza ipocrisie quello che pensiamo: BASTA CON I TICINESI A MILANO!

Umberto Eco è stato, in questi anni, per me (per noi) una presenza quasi famigliare.

Non per le molte volte che lo abbiamo ascoltato in conferenze, dibattiti, presentazioni. E nemmeno per qualche fugace incontro in una dimensione più personale (in uno di questi incontri, in particolare, stavo trasportando un armadio, quindi difficilmente avrei potuto soffermarmi a filosofeggiare. Argh! Stavo per usare i punti di sospensione... No! Li ho usati. Doh).


 

Umberto Eco è stato, in questi anni, una presenza quasi famigliare perché ha saputo contribuire, con sagacia e ironia, a definire la cosmologia della nostra quotidianità.

È davvero sorprendere pensare quanti diversi aspetti della mia (nostra) vita siano stati in una qualche maniera influenzati dalle riflessioni del filosofo alessandrino. Non è strettamente necessario aver letto per intero la sua sterminata opera per subire questa pervasiva, divertente, invasione. A me, per esempio, è bastato leggere (quasi) tutti i sui romanzi, un paio (e non di più) dei suoi saggi più seri, i due splendidi Diari Minimi, qualcuno degli altri indefinibili volumi di riflessioni varie e molte Bustine per ritrovarmi pacificamente colonizzato.

Ho divorato Il nome della rosa intorno ai quattordici anni, scoprendo in un colpo solo il Medioevo, i gialli, la passione per i libri e perfino legittimità culturale di alcune inevitabili pulsioni adolescenziali. Kant e l'ornitorinco, volume assai meno lieve di quanto il titolo non farebbe pensare, è stato uno dei testi fondamentali per la mia tesi di dottorato, e - ogni volta che mi trovo a ragionare sui rapporti tra il pensiero e la realtà - torno ad alcune fondamentali frasi di quel libro che mi sono sempre di grande aiuto. Allo stesso modo non posso più pensare a un flipper senza perdermi in languide digressioni sulla sua sensualità. E ogni volta che mi metto a scrivere - proprio come sto facendo ora - mi chiedo se sono di nuovo scivolato in una delle tante pessime abitudini che il nostro, senza pietà, fustigava.

Quando rifletto sulle difficili sorti della nostra amata-odiata università non posso che tornare alle molte acute osservazioni che l'Eco professore ha, negli anni, fatto, ritrovandomi in fine a sognare una nuova facoltà. Una facoltà dove si studi l'urbanistica tzigana e la statica in assenza di gravità, dove si disserti dei cromatismi negli interni bui e di sintassi dei complementi d'arredo. Facoltà in cui io sarei, come decidemmo molti anni fa con alcuni amici sotto la pioggia della Galizia, docente di Mitighezza dei materiali.

Umberto Eco è stato, in questi anni, una presenza quasi famigliare insieme ad alcuni, pochi, altri. Almeno per quanto mi riguarda. Insieme a Manuel Vázquez Montalbán, cui ho sempre pensato somigliasse, un po' anche fisicamente. Insieme, forse, a Italo Calvino. Membri ignari di un piccolo e gioioso pantheon laico che mi accompagna in questi tempi incerti. Perché in questa epoca PostTutto, superate le grandi narrazioni, senza ideologie e a corto di idee, in questa epoca in cui quasi ci si vergogna di voler imparare, Umberto Eco è stato per me (per noi) un vero maestro (nel senso Elementare e alto della parola, doverosamente qui senza maiuscola).

Che la terra le sia lieve, professore, e grazie di tutto.

 

Temo che il mio carissimo e fidato amico Andrea non mi perdonerebbe il fatto di aver scritto questo intero post senza mai usare la parola "semiotica". Ma, ahi me, l'ho fatto. Forse perché, in fondo, non ho davvero mai capito cosa sia. Ma se è servita - dico, la semiotica - se è servita a Umberto Eco per concepire tutte quelle cose intelligenti, e divertenti, e utili, di sicuro è una disciplina fondamentale e prodigiosa.

Come probabilmente sapete, sono padre orgoglioso di Luisa, nove anni, e Michele, sei. In questi anni mi sono fatto un’idea abbastanza precisa dei requisiti necessari a essere un buon genitore. Occorre, prima di ogni cosa, essere dotati di infinita pazienza, che questi piccoli adorabili mostri conoscono innumerabili modi per farci uscire dai gangheri. Occorre essere generosi, di una generosità che non è comune negli altri aspetti della vita. Occorre essere coerenti, perché i nostri figli imparano molto più da ciò che facciamo, che non da ciò che diciamo. Occorre essere dotati di tanta fantasia, per raccontare storie e raccontare il mondo. Occorre un sacco di tempo. E un sacco di energia. E aiuta essere lievi, passare attraverso le cose senza superficialità, ma liberi da inutili zavorre.

Personalmente, mi sento assai carente su numerosi di questi fronti, ma in qualche modo tiriamo avanti.

Se devo dirla tutta, il fatto di essere eterosessuale non è che abbia poi fatto tutta 'sta differenza...

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Paolo Mazzoleni
Married architect father of two. Partner of BEMaa and URBANA, adjunct professor at PoliMI and enthusiast of urbanity. Addicted to social networking, blogger.

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